La maggioranza non vince

La globalizzazione ha visibilmente abbreviato le distanze spaziali tra gli abitanti del pianeta, ma anche i tempi di comunicazione tra le zone più lontane del globo. Una velocità altrettanto sorprendente ha caratterizzato l’imporsi delle conseguenze di tale fenomeno: conseguenze sfuggite a ogni capacità programmatica di anticipazione, che si sono palesate con la violenza dello “stato di fatto”. Dietro l’economia, motore guida della globalizzazione, arranca la politica, le cui ragioni sono ancora ancorate alle particolari esigenze dello stato-nazione: al di fuori degli stati nazionali, nello spazio globale, la sua mancanza d’orientamento troppo spesso l’assoggetta agli interessi economici delle multinazionali. Finora lo spazio globale, che la politica ha lasciato vacante in quanto è solamente un “tra” gli stati, è stato coperto esclusivamente da attori non statali come imprese multinazionali e banche private internazionalmente influenti: basti solo pensare che il bilancio annuale delle prime trenta multinazionali è oggi più grande del prodotto nazionale lordo di novanta paesi aderenti all’Onu.

La globalizzazione, tradotta nei termini della politica odierna, è piuttosto una localizzazione: il globo è un insieme disomogeneo e atomistico di realtà statali la cui capacità d’influenza esterna è ridotta al minimo dall’incapacità di coprire politicamente quegli spazi globali in cui, oltre al denaro, si muovono le genti del mondo. Lungo le strade del grande capitale, lo spazio globale diventa progressivamente spazio multiculturale non tutelato da un diritto che solo in casi divenuti eclatanti espatria dai suoi confini nazionali e statali. Eppure la politica internazionale è sempre più frequentemente chiamata a intervenire per risolvere, in ogni parte del globo, situazioni non tanto lontane da non influenzare l’opinione pubblica interna agli stati. Nel mondo occidentale il dibattito teorico degli ultimi anni si è concentrato proprio sulla legittimità dell’intervento delle grandi potenze per dirimere le questioni internazionali: l’ultimo, drammatico esempio riguarda la guerra in Kosovo.

L’ultima guerra del millennio, piuttosto che concludere il Novecento, ha posto innanzi all’opinione pubblica mondiale la prima e inaggirabile questione del nuovo millennio: è la violazione palese dei diritti umani una giustificazione sufficiente per intervenire contro uno dei principi fondamentali dello stato-nazione, l’autodeterminazione nazionale?. Lo “stato di fatto” della guerra in Kosovo ha evidenziato nel sistema internazionale dei diritti lo iato insostenibile tra la salvaguardia dei diritti universali umani e il rispetto per la sovranità nazionale di ogni stato. Il dibattito, sorto in ambito anglosassone e adesso estesosi sulla spinta dell’attualità, ha espresso due posizioni tra loro assolutamente alternative. Il nucleo essenziale della discussione verte intorno ai diritti universali umani , alla loro legittimità reale o ideale e, quindi, al loro valere o meno alla stregua di un diritto positivo, coercitivo e vincolante. La prima posizione, detta liberale, afferma la necessità di ribadire il ruolo centrale dei diritti universali umani e di accrescerne la stringenza.

Nella forma dei diritti dell’individuo, i diritti universali umani rappresentano quella visione liberale per la quale, prescindendo da ogni determinazione etnica, culturale e religiosa, ogni uomo deve essere “previsto” e tutelato, esclusivamente in quanto individuo, in qualsiasi parte del mondo: la centralità dei diritti umani rispetto a quelli delle particolari comunità nazionali consentono l’intervento degli organismi sovranazionali in ogni caso di loro violazione. Ciò che contesta l’altra posizione, detta comunitarista, è proprio la mancata considerazione, da parte dei liberali, della nuova configurazione multiculturale delle società contemporanee: l’astrazione da ogni determinazione particolare della “comunità” d’appartenenza è una forma di violenza, che la civiltà occidentale perpetua nei confronti di quei popoli nella cui tradizione i valori della comunità sono prioritari rispetto a quelli individuali. Ne è testimonianza la Dichiarazione di Bangkok (1993) rilasciata da Singapore, Malesia, Taiwan e Cina in cui, sulla scorta dei “valori asiatici”, si obietta il taglio individualistico dei diritti umani di stampo occidentale e si fa appello ai valori comunitaristici delle culture confuciane dell’Estremo Oriente.

La non-ingerenza nel diritto all’autodeterminazione nazionale, che i comunitaristi professano, comporta la limitazione del diritto entro i confini dell’idea di nazionalità, lasciando un problematico e pericoloso vuoto di regolamentazione giuridica nello spazio globale. Intanto le vicende di Seattle evidenziano la nascente formazione di una società civile mondiale, che non si riconosce intorno ai valori aggregativi della nazionalità. Essa è l’espressione più evidente di una “comunità del rischio” in cui la popolazione mondiale è stata costretta a unificarsi sulla spinta di problemi globali, per esempio disoccupazione e ambiente, che interessano ogni uomo in quanto cittadino del mondo. Il grave rischio che corre la comunità globale è quello di esser rappresentata da una politica che tratta i problemi di scala mondiale, in assenza di regole che li contemplino, con soluzioni sempre particolari.

La prospettiva di una globalizzazione dei diritti, che copra il vuoto di regolamentazione giuridica dello spazio globale, è al centro delle riflessioni di Jürgen Habermas, erede della grande tradizione della filosofia classica tedesca. Il tentativo di Habermas consiste nel conciliare, integrandole con i presupposti filosofici della sua teoria discorsiva, le istanze fondamentali dei liberali e dei comunitaristi. La parola d’ordine di questa sintesi costruttiva è, come indicato dal titolo del suo libro del 1996, “inclusione dell’altro”: in base alla concezione liberale che riconosce ognuno cittadino del mondo in quanto individuo, Habermas definisce una forma di inclusione che, tuttavia, non sia indifferente all’alterità difesa come inviolabile dai comunitaristi. Un’inclusione che non si risolva nell’omogeneità dell’assimilazione, ma che sia sensibile alle differenze: l’inclusione dell’altro deve essere il presupposto teorico di una democrazia cosmopolitica, strutturata sullo spazio discorsivo di una “politica interna mondiale” che riconosca l’attualmente delegittimata “comunità del rischio” come suo attore principale.

Abbiamo discusso di questi temi con Giacomo Marramao.

Professor Marramao, potrebbe descrivere e spiegare la definizione habermasiana di “inclusione dell’altro”, come compresenza delle istanze principali del modello liberale e di quello comunitarista?

Habermas ponendo il tema della democrazia come “inclusione dell’altro” tenta di includere, di assorbire all’interno del suo modello democratico, un’esigenza emersa dalla polemica comunitarista contro i liberali: l’esigenza di una prospettiva che guardi a un legame sociale di tipo non meramente proceduralistico, che sia radicata in una relazione solidale con l’alterità. Il modello habermasiano, come lui stesso lo definisce, è un terzo modello normativo di democrazia che vuole essere equidistante rispetto al modello liberale e a quello comunitarista, ma al tempo stesso recuperare di questi due modelli gli elementi che Habermas ritiene validi, il loro nocciolo razionale.

Il modello liberale parte dall’autonomia della società e considera lo Stato un puro strumento di realizzazione ed espressione dei bisogni e degli interessi che emergono dalla libera dinamica sociale, economica e di mercato. La democrazia è intesa come un sistema di tecniche finalizzata, per dirla con Schumpeter, alla selezione delle classi dirigenti politiche e come una serie di regole formali per l’esercizio equilibrato del potere: una macchina tecnico-funzionale che non ha in sé altra legittimità se non quella di fungere da dispositivo efficiente per la realizzazione di interessi già dati nell’autonomia sociale. I comunitaristi, invece, ritengono che l’autonomia della società non sia soltanto competitiva, concorrenziale, individualistica, ma che debba trovare espressione nella volontà della comunità, nella sovranità popolare, nell’espressione della “sostanza comune” alla base della società.

L’espressione della sovranità popolare è una perfetta sintesi tra il sociale e il politico: nella concezione comunitarista la sfera politica non è altro che l’espressione di un soggetto comune essenzialmente omogeneo, dotato di una volontà sostanziale come quella di un unico individuo. I comunitaristi ritengono che tutto ciò risulti da processi storico-culturali che omogeneizzano un soggetto comunitario e organico. Tuttavia, rispetto al modello liberale, abbiamo non tanto un’enfatizzazione delle regole e delle procedure, quanto dell’elemento sostanziale della volontà, della soggettività comunitaria. Mentre la democrazia liberale è indiretta e delegata, la democrazia dei comunitaristi, invece, è diretta, si potrebbe dire immediata: secondo Habermas tendente pericolosamente alla demagogia e al populismo. Per il filosofo tedesco, questi due modelli hanno enormi difetti. Il modello liberale è eccessivamente “freddo” e non è in grado di legittimare, sulla base della sola corrente fredda delle regole e delle procedure, la democrazia: non viene posto il problema della costante ri-legittimazione del diritto, il diritto viene posto come valido nella sua nuda positività e formalità.

Il modello comunitarista, invece, enfatizza il problema della legittimità fino a farlo diventare una sorta di panacea, di soggetto sostanziale che inghiotte in sé ogni regola e mediazione. La corrente “calda” dei comunitaristi è talmente incandescente da fondere qualunque tentativo di limitazione e di controllo, non esistono più canali e limiti entro cui esercitare il potere. Il potere legittimato secondo il modello comunitarista può tutto in nome del popolo e della comunità, diventa un potere, sulla base del dispositivo della sovranità popolare diretta, autolegittimato, che può sopprimere qualunque garanzia del dissenso individuale: nel perdersi della mediazione delle regole si perde anche l’unica protezione che gli individui hanno per tutelare la propria libertà di dissenso rispetto alla comunità stessa.

Il terzo modello normativo di democrazia dovrebbe distanziarsi dai difetti dei due: dalla “glacialità” del proceduralismo liberale e anche dalla democrazia “fusionale”, popolare e populista, del comunitarismo.

Quali sono, dunque, i nuclei razionali e le esigenze valide dei due modelli? In quello liberale vi è la giusta esigenza di un potere che venga esercitato sulla base di condizioni e limiti d’esercizio: vi è in esso l’idea del diritto, formale e universale, come condizione imprescindibile per un sistema che voglia assumere l’appellativo di democratico. Anche il modello comunitarista ha in sé un nucleo di validità: l’idea che la democrazia deve legittimarsi sulla base di un “protagonismo” dei soggetti sociali, che assumano su di sé la libertà e la responsabilità dell’agire politico, ri-legittimando di volta in volta le regole. Il modello habermasiano parte da una concezione più ampia ed estesa del proceduralismo: secondo Habermas esso è la sostanza della modernità, che, a differenza dell’organicità priva di mediazioni delle società tradizionali, si fonda sulla mediazione e i diritti individuali.

Il formalismo, tuttavia, non deve rivendicare con arroganza la propria autonomia tecnica, ma deve saldare questa universalità tecnica con il momento della legittimazione discorsiva: il diritto non deve essere statuito da élites politiche o tecnico-giuridiche, non deve essere una faccenda di pura “ingegneria istituzionale”, ma deve essere costantemente negoziato e ri-negoziato sulla base di procedure discorsive. In Habermas, la concezione della democrazia procedurale estende la nozione di procedura, che diventa anche il processo di legittimazione discorsiva del diritto e delle norme. Questo processo è l’attività della cittadinanza che discute le precondizioni di valore etico-culturali del diritto stesso, che cambia con i mutamenti culturali: oggi, ad esempio, abbiamo bisogno di normative più ampie e articolate perché emergono le questioni della bioetica, del rapporto tra i sessi, le rivendicazioni del femminismo e quelle ambientali, che cambiano l’idea di proprietà e di potere di disposizione sul territorio delle risorse.

Questa visione più estesa della procedura è l’anima del terzo modello di democrazia che Habermas propone: la democrazia deliberativa, dove si giunge alle decisioni attraverso deliberazioni, pratiche discorsive, attraverso il confronto in un sfera pubblica che è il ponte stabilito tra il mutamento culturale, e i quadri normativi che emergono da esso, e la pratica di statuizione istituzionale delle norme e del diritto. Rispetto a Rawls, la sfera pubblica politica rappresenta una sorta di ponte tra la tematica della “giustizia procedurale” e la tematica del “bene”, che per Rawls è una tematica privata, legata a un associazionismo prepolitico e spoliticizzato. Per Habermas, invece, le concezioni del bene nella sfera pubblica non devono restare isolate, ma devono essere sottoposte a un trattamento argomentativo: esse non sono riconducibili a un parametro unico, altrimenti ricadremmo nella clausola comunitarista che stabilisce ex ante il bene della comunità e indirizza la politica al perseguimento di questo bene. Habermas, pur mantenendo il pluralismo delle diverse visioni del bene, concepisce queste non in forma immobile e immutabile, come Rawls, ma come oggetto di argomentazione, trattate all’interno di un processo discorsivo che è alla base della legittimazione delle norme.

Per Habermas “bene” e “giusto” sono due concetti fondamentali, a cui corrisponde la coppia “ethos – morale”. A livello di diritto queste nozioni si traducono nell’alternativa tra “diritto all’autodeterminazione nazionale” e “diritti umani universali”, tra istanza nazionale e istanza universale. Secondo Habermas come è possibile tutelare la particolarità rappresentata dalle diverse concezioni del bene e dell’ethos all’interno dell’universalità dei diritti umani?

Habermas ritiene che la nozione di diritti umani vada sottratta all’ambito etnocentrico e vada posta a confronto, sulla scena del mondo globalizzato, con altri valori che si trovano a sfidare il razionalismo occidentale: in particolare è molto importante il confronto con gli asian values. Secondo il filosofo tedesco, i diritti umani rappresentano un’istanza transnazionale, di moralità universale nel senso kantiano, che può essere affermata sulla base di una procedura discorsiva e argomentativa che permetta all’universalismo di affermarsi concretamente: da questo punto di vista la prospettiva habermasiana rimane fortemente kantiana. A tal riguardo, credo che sia da ravvisare un limite della concezione di Habermas: egli ritiene che si possa trasferire – come indica il titolo della sua recente raccolta di saggi – sul piano della “costellazione post-nazionale”, attraverso la formazione di una opinione pubblica e l’estensione delle pratiche di legittimazione discorsiva e deliberativa, lo stesso processo di passaggio dallo stato assoluto allo stato democratico di diritto.

Questo modello kantiano ancora presente in Habermas rende la sua prospettiva alquanto utopica, “una fuga in avanti”. Per affrontare il passaggio da una idea di politica democratica legata alla forma dello stato nazionale a una idea di politica democratica che si collochi – come evidenzia il titolo di un mio libro – “dopo il Leviatano”, sarebbe invece necessario un confronto serrato tra la tematica dell’universalismo e quella delle differenze culturali. Quest’ultima è assunta in Habermas in modo troppo funzionale rispetto all’idea “cosmopolitica” in senso kantiano di una democrazia post-nazionale. Una morale provvisoria per il medio periodo, più attenta ai passaggi intermedi e alle differenze specifiche, avrebbe conferito all’analisi habermasiana un tasso di concretezza più elevato. Nonostante ciò, la sua prospettiva resta indubbiamente interessante e degna d’esser discussa: rispetto a tante prospettive filosofiche “indiscutibili”, che non forniscono alcun appiglio alla discussione, quella habermasiana è invece “discutibile”, nel senso che è suscettibile di discussione.

Ne La costellazione post-nazionale, Habermas rivaluta fortemente il ruolo della politica che, ancora costretta entro i limiti del concetto di nazionalità, dovrebbe estendere il proprio fondamento di legittimità per poter regolare il fenomeno prettamente economico della globalizzazione: nella prospettiva globale di una società multiculturale, la politica deve costruire una “politica interna mondiale in assenza di un governo mondiale”. In che modo Habermas pensa di sottrarre le minoranze alla cosiddetta “tirannia delle maggioranze”, che confonde la cultura politica generale con la cultura politica della maggioranza?

Habermas ha posto l’esigenza di un governo politico dei processi di globalizzazione: la globalizzazione non è un pensiero unico da demonizzare, tuttavia essa non deve essere lasciata a se stessa, altrimenti rischia di produrre degli effetti destabilizzanti. Pur in assenza di un “governo mondiale”, la politica deve assumere una funzione guida dei processi di globalizzazione che devono puntare soprattutto alla “globalizzazione dei diritti” in risposta a quella delle merci, della produzione e dei capitali finanziari. (deve far riscontro una pari globalizzazione dei diritti, cosa che finora non si è ancora verificata.)

Riguardo il problema della maggioranza, Habermas concepisce il principio della maggioranza in modo non perentorio, non decisionistico, ma mediato discorsivamente. Ciò, tuttavia, non basta: per superare la “tirannide della maggioranza” non è sufficiente impedire a questa di prevalere con la bruta ragione dei numeri, ma anche con la ragione dell’argomentazione. Teoricamente potrebbero esserci delle maggioranze o delle minoranze retoricamente più capaci di persuasione: ricordiamo, infatti, che la democrazia è fatta anche di persuasori occulti. Il problema è tuttavia un altro. E Habermas lo ha affrontato in modo ancora limitato: la tutela dei diritti rispetto a una interpretazione unilaterale e drastica, in un certo senso suprematistica, del principio di maggioranza. La democrazia deve essere un ventaglio di valori e di diritti sottratti alla maggioranza stessa.

Uno dei rischi delle nostre democrazie è proprio il processo di decostituzionalizzazione, di derubricazione del problema della riforma costituzionale a problema di riforma di una legge ordinaria: se prevale una cultura in cui la costituzione si può riformare a colpi di maggioranza, si viola il principio base della democrazia, secondo il quale ogni costituzione deve avere una parte rigida e una flessibile, dove la parte rigida è fatta di quei principi e diritti inalienabili che non possono essere oggetto dell’arbitrio della maggioranza stessa, che sono sottratti al gioco di maggioranza e minoranza. Questa questione è molto importante ed è anche uno dei problemi su cui oggi più drammaticamente è aperto il confronto nelle nostre democrazie.

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