La mia ricetta per la scienza europea

Restituire agli enti di ricerca l’autonomia persa con le troppe ingerenze della politica: per esempio istituendo dei “search committee” che sottopongano al ministro una terna di nomi all’interno dei quali scegliere i nuovi presidenti. Ma anche mettendo a punto dei nuovi statuti che valorizzino ed esaltino l’indipendenza degli enti. Puntare, infine, su una stabilità politica di medio/lungo periodo per consentire ai piani di intervento di svilupparsi e rafforzarsi. Cercando nel frattempo non già di centrare gli obiettivi di Lisbona (nell’Unione europea gli investimenti in ricerca dovrebbero raggiungere il 3 per cento del Pil entro il 2010), ma almeno di non restare troppo indietro.

Così il ministro della Università e della Ricerca Fabio Mussi ha tracciato le linee del suo programma nel corso della Giornata su “La scienza della materia in Italia: idee e progetti di nuova organizzazione”, il 17 settembre scorso a Roma, coordinata dal Ministero con la partecipazione del Consiglio Nazionale delle Ricerche e dell’Istituto Nazionale di Fisica della Materia. Una giornata cui ha partecipato, in veste di osservatore e commentatore, anche Claude Cohen-Tannoudji, dell’Ecole Normale Supérieure di Parigi e Premio Nobel per la Fisica nel 1997 per le sue ricerche sulle interazioni tra radiazione e materia, e per la messa a punto della tecnica del laser cooling, cioè il raffreddamento degli atomi con tecniche laser. Galileo gli ha chiesto di tracciare un quadro della politica della ricerca in Europa.

Professor Tannoudji, la “fuga dei cervelli” cui lei ha accennato nel suo intervento è un problema che in Italia è particolarmente sentito. Com’è la situazione in Francia?

“In generale leggermente migliore rispetto a quella italiana, ma dipende dai settori disciplinari. In particolare in biologia e medicina la situazione è molto grave: molti post doc partono per gli Stati Uniti e non tornano più. E anche in fisica si sta verificando la stessa cosa. I motivi? I posti nei luoghi di ricerca come il Cnrs non sono numerosi, e anche se un ricercatore è bravo non ha la sicurezza di trovare un contratto; le promozioni sono lente e non ci sono distinzioni abbastanza forti tra i ricercatori di alto e quelli di medio livello. D’altra parte, a coloro che scelgono di partire per gli Usa con un buon progetto di ricerca, vengono dati subito gli strumenti per cominciare, uno stipendio molto appetibile, finanziamenti e personale, e dunque il ritorno in patria è più difficile”.

E secondo lei quali soluzioni possono essere trovate?

“Secondo la strategia di Lisbona, ciascun paese deve devolvere il 3 per cento del suo prodotto interno lordo alla ricerca. Ma quanti sono i paesi che hanno raggiunto questi obiettivi? Non solo: bisogna rendere la carriera dei ricercatori molto più attraente, con strumenti di lavoro adeguati e salari più alti. E creando dei centri di eccellenza dove i ricercatori possano lavorare nelle condizioni migliori, competitive rispetto a quello che si può trovare negli Stati Uniti o in Giappone”.

Il ministro Mussi ha parlato dell’interferenza della politica sulla ricerca, e della necessità di recuperare autonomia. Lei cosa ne pensa?

“E’ difficile rispondere a questa domanda, perché la struttura della ricerca in Italia non è la stessa che da noi. In Francia abbiamo un sistema interessante, quello dei “laboratori associati”, nei quali ricercatori del Cnrs, dell’Università e di altri centri lavorano insieme su uno stesso progetto. Ed è un sistema che funziona. Nel campo della fisica della materia, per esempio, la Regione Ile de France ha messo in piedi un istituto chiamato Ifref (Institut Francilien pour la Recherche de l’Etat Froid), che raggruppa sei dei sette laboratori dell’area parigina impegnati in questo settore. E’ un modello che consente di sfruttare le sinergie, di migliorare la collaborazione tra gruppi di ricerca, di finanziare dei viaggi all’estero. E la Regione sostiene il progetto perché attira visitatori di qualità. Si tratta di un modello preso in prestito dagli Stati Uniti, ma penso che tutta la ricerca europea potrebbe trarne vantaggio, federando dei centri di eccellenza in Francia, in Italia, in Germania…”.

Dunque bisogna investire di più nella ricerca: ma in quella di base o in quella applicata?

“Io credo che sia importante la ricerca applicata, quella che porta allo sviluppo di nuove cose, ma il nocciolo della ricerca è quella di base. Tutte le applicazioni moderne che hanno cambiato le nostre vite, dal laser ai transistor, sono il risultato della ricerca fondamentale. Il problema è che non possiamo stabilirlo prima. I ricercatori che lavoravano sul laser non sapevano che questo avrebbe trovato delle applicazioni così importanti, non sapevano esattamente a cosa sarebbe servito, e solo in seguito si sono resi conto di quanto sarebbe stato utile. L’importante, secondo me, è fare ricerca di qualità, che sia applicata o fondamentale è secondario”.

In Italia uno dei problemi sottolineati dal ministro Mussi è la scarsa capacità innovativa delle aziende. In Francia come funziona il rapporto tra la ricerca e l’industria?

“Non benissimo, anche se sta migliorando. Il fatto è che l’industria non fa alcuno sforzo per finanziare l’innovazione. E questo è un peccato: perché per raggiungere il famigerato 3 per cento del Pil bisogna che gli investimenti non siano soltanto a carico dello Stato. Purtroppo i grandi gruppi industriali sembrano preoccupati soprattutto degli investimenti all’estero, invece che di quelli nazionali. E’ un problema di prospettiva temporale, di visione a lungo termine: per fare della buona ricerca fondamentale sono necessari dieci, venti anni, mentre i politici e gli industriali hanno un orizzonte limitato a tre quattro anni. Se si investe su un gruppo di ricercatori intelligenti e lo si lascia lavorare, ci sono ottime probabilità che questo lavoro possa sfociare in applicazioni importanti”.

Quali meccanismi di valutazione vengono adottati in Francia?

“Fino a poco tempo fa era il Cnrs che valutava l’attività del ricercatore, dal 2006 c’è una nuova agenzia di valutazione (l’Agence nationale d’évaluation de l’enseignement supérieur et de la recherche – Aeres), che però ancora non ha cominciato i lavori. Un’altra novità è rappresentata dall’Agenzia Nazionale della Ricerca (Anr), un’agenzia che dal 1 gennaio di quest’anno ha il compito di finanziare i progetti di ricerca. Quando un gruppo ha una buona idea la sottomette all’Anr, che la valuta anche servendosi di consigli esterni, un po’ come la National Science Foundation americana. La cosa buona dell’Anr è che ha uno spazio “bianco” dedicato al finanziamento di progetti che non sono nel programma. Mi spiego: spesso l’Europa fa dei programmi su energia, ambiente, comunicazioni: ma a volte sono così dettagliati e precisi che i progetti innovativi non trovano lo spazio che gli compete. All’Anr invece possiamo sottoporre ricerche fondamentali senza che abbiano un oggetto definito secondo criteri troppo restrittivi”.

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