La Nato guarda a Est. Ma l’allargamento costa

Grandi manovre alla Nato. Il processo di riforma, stimolato dai cambiamenti geopolitici avvenuti in Europa dal 1992 e dalla guerra nella ex Jugoslavia, dovrebbe concretizzarsi al vertice dei ministri degli Esteri dei 16 paesi membri, fissato per il 10 e l’11 dicembre a Bruxelles. Tre i punti all’ordine del giorno: la riforma della struttura militare dell’Alleanza Atlantica; la definizione dei rapporti fra la Nato e la Russia; l’avvio del processo di ampliamento dell’Alleanza ai paesi del Centro e dell’Est Europa. L’unico accordo che di fatto dovrebbe essere raggiunto riguarda però solo il terzo punto, il più delicato, controverso, ma soprattutto costoso.

Crollata l’Unione sovietica, e cessato l’equilibrio dei blocchi contrapposti, i paesi che facevano parte del Patto di Varsavia (sciolto nel 1992) hanno chiesto l’ammissione nella Nato. La Russia, che ha subito posto il veto sull’ampliamento dell’Alleanza, ha inizialmente eluso il problema con una brillante operazione diplomatica: aderendo cioè alla cosiddetta Partnership per la pace, una iniziativa creata per organizzare manovre militari congiunte fra i paesi un tempo contrapposti. Un programma che ha dato i suoi frutti nella missione Ifor per l’attuazione della pace in Bosnia. I 33 paesi che partecipano alla missione, tra cui Russia, Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Estonia, Lituania, Ucraina e Romania, stanno collaborando sul campo, di fatto, sotto il comando della Nato, anche se formalmente il contingente russo, è sotto comando autonomo, coordinato alla Nato da un ufficiale di collegamento.

Ma la Partnership per la pace non è sufficiente, quantomeno agli Stati Uniti. Il mese scorso a Detroit, il Presidente Clinton ha dichiarato che il primo gruppo di paesi in lista d’attesa a Bruxelles sarebbe stato ammesso entro il 1999, anno del 50° anniversario dell’Alleanza. Fonti degli Istituti di analisi americani, vicini al governo di Washington, hanno anche fatto trapelare i nomi: Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca e Slovenia dovrebbero aver presentato la documentazione più convincente (che soddisfi cioè alcuni criteri: avanzato stato delle riforme politico-economiche, relazioni distese con i paesi confinanti e la Russia, capacità strategico-militare importante per l’Alleanza). A questi nomi, l’Italia aggiungerebbe la Romania, per interessi economici e militari emersi durante l’operazione di monitoraggio dell’Adriatico (Sharp Guard) per garantire il rispetto dell’embargo contro la ex Jugoslavia.

Ad opporsi al piano è invece la Russia, insieme ai paesi esclusi che temono di essere lasciati fuori per sempre dall’ombrello protettore dell’Alleanza. Tuttavia Mosca, pur continuando a giudicare negativo l’ampliamento, sarebbe disposta ad accettarlo dopo aver sottoscritto, a Bruxelles, un documento “concreto” nel quale venisse escluso lo stanziamento di armamenti nucleari e truppe straniere nei paesi confinanti, e venisse riformato il trattato Cfe (Conventional Force in Europe), che regola il numero degli armamenti convenzionali sul teatro europeo. Sembra invece che a Bruxelles la definizione dell’accordo con Mosca sarà rinviata, per la situazione di incertezza politica in cui si trova la Russia di Boris Eltsin.

A complicare il quadro c’è però un elemento di cui si è parlato poco: il costo dell’ampliamento, ovvero della creazione di basi e infrastrutture nei paesi ammessi. Fino a ora sono stati fatti due studi: il primo, finanziato dal Pentagono, prevede diversi scenari, che arrivano a prevedere fino ai 165 mila miliardi di lire, cinque volte il bilancio della difesa in Italia, il 60 per cento di tutti i bilanci della difesa dei paesi europei. Una cifra elevata soprattutto se si considera che a sborsarla dovranno essere quegli stessi paesi che, per aderire al Trattato di Maastricht, stanno drasticamente tagliando la spesa pubblica. La seconda stima è del General Accounting Office (www.gao.gov) , una sorta di Corte dei conti che dipende dal Congresso americano, e si aggira sui 50 mila miliardi di lire.

La grande fretta degli Stati Uniti sembra trovare, come sola giustificazione, il rilancio di una struttura a corto di idee e missioni: la Nato come asse portante della sicurezza europea, un ruolo che invece la Russia insiste nel voler affidare all’Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa, nella quale sono rappresentati “sullo stesso piano” tutti i paesi della regione, Russia inclusa. E questo, insiste Mosca, eviterebbe l’insorgere di nuovi muri in Europa.

Uno degli elementi principali della riorganizzazione interna della Nato è la redistribuzione dei comandi, fino a ora esclusiva dei militari americani, in previsione di missioni lanciate dai soli europei, a corto di un sistema di difesa comune. Questo ha scatenato una forte competizione nel vecchio continente, contrapponendo in particolare Roma a Parigi (la Francia rientrerà nella struttura militare della Nato da cui era uscita con De Gaulle, nel 1959). E come ha precisato una fonte molto affidabile della difesa italiana “siamo ancora in alto mare, difficilmente potrà essere trovato un accordo entro dicembre”.

Il Presidente francese Jacques Chirac ha chiesto a Clinton il comando di AFSOUTH, le forze alleate del Sud-Europa basate a Bagnoli. Da Washington è arrivato un secco no, perché il comandante di AFSOUTH è anche responsabile della sesta flotta americana. Una carica che Chirac, per superare l’impasse, ha suggerito di trasferire al comando strategico alleato in Europa di Mons. Ma sullo sdoppiamento dei comandi la Francia è isolata anche degli altri paesi membri.

Poche settimane fa, sono state inoltre concordate le prime tre cellule europee in ambito Nato: Napoli, Brunssum, in Olanda, e Norfolk, in Virginia, con disappunto di Chirac che chiedeva l’apertura di una base a Tolone.

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