“Pace” non significa solo far tacere le armi. Vuol dire avere un lavoro, un servizio sanitario e un’istruzione garantita per i propri figli. E vedere i propri bisogni riconosciuti dalla società. Questo pensano le donne, quando si chiede loro cosa voglia dire vivere in pace, come dimostra l’ultima ricerca dell’Economic and Social Research Council, una società inglese che finanzia studi socioeconomici e organizzazioni no profit. Purtroppo, a gestire i processi di peacekeeping sono sempre gli uomini, per i quali l’idea di sicurezza coincide quasi esclusivamente con quella di incolumità fisica. E dunque lascia inespresse le necessità di madri, figlie, lavoratrici.
La ricerca, coordinata dalla Queen’s University di Belfast, è stata condotta in tre paesi appena usciti (o ancora immersi) da un lungo periodo di sanguinosi conflitti: l’Irlanda del Nord, il Sud Africa e il Libano. In queste società, nonostante il “cessate il fuoco”, le donne intervistate continuano a sentirsi in guerra. E la ricostruzione, intesa solo come riparazione di edifici e infrastrutture, non ha in alcun modo migliorato la qualità della vita delle donne, che devono fare i conti con la violenza, la sopraffazione, la discriminazione tipiche delle società patriarcali. In Irlanda del Nord e in Sud Africa, per esempio, le intervistate si dicono convinte che la violenza sulle donne sia aumentata proprio in concomitanza del ritorno dei combattenti dal fronte.
“Per me – ha spiegato una donna libanese ai ricercatori – sicurezza significa non avere paura: di avere fame, di spostarsi, di pensare e di essere giudicata”. Ma le istituzioni che guidano i processi di pacificazione sono sopraffatte dal pensiero maschile, spiega Paddy Hillyard, che ha coordinato la ricerca. La risoluzione 1325 delle Nazioni Unite su Donne, Pace e Sicurezza, concludono i ricercatori, dovrebbe essere davvero applicata affinché le donne possano giocare un ruolo attivo nella transizione dal conflitto alla stabilità. (e.m.)
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