La plastica che fa impazzire l’ormone

I suoi effetti negativi sull’organismo sono conosciuti fin dalla metà degli anni Novanta, ma ora a carico del bisfenolo A si aggiunge un nuovo capo d’imputazione: anche a piccole dosi può alterare lo sviluppo ormonale dei topi. La notizia, pubblicata su Nature (21 ottobre), ha preoccupato gli stessi ricercatori dell’Università del Missouri che hanno condotto l’esperimento. Già perché il bisfenolo A è uno dei 50 composti più usati negli Stati Uniti: si trova nella plastica, nella resina usata per sigillare i cibi in scatola e in molti rivestimenti protettivi per i denti. Questo nonostante il composto, insieme al ben noto pesticida Ddt e l’octalfenolo (un altro composto chimico comunemente trovato nei detergenti e nella plastica), fosse già stato classificato tra le sostanze chimiche in grado di scompigliare il sistema endocrino dei vertebrati.

L’équipe americana, guidata da Kembra L. Howdeshell, ha dimostrato che basta somministrare delle dosi di bisfenolo pari alla quantità a cui è quotidianamente esposto un essere umano a delle femmine di topo gravide per avere degli effetti sulla prole. E’ infatti proprio in questo delicato momento di sviluppo degli organi che gli agenti chimici possono avere gli effetti più nocivi e irreversibili. Le topoline femmine nate dalle madri a cui era stato somministrato il bisfenolo hanno reagito con un ritmo di crescita post nascita anormale: arrivate all’epoca dello svezzamento erano tutte notevolmente più pesanti rispetto alle femmine nate da madri non trattate con la sostanza chimica, e hanno raggiunto la maturità sessuale prima delle altre.

Gli effetti di questa sostanza chimica, infatti, si concentrano principalmente sul sistema endocrino, il meccanismo di produzione degli ormoni da cui dipendono la crescita corporea, lo sviluppo degli organi, la proliferazione e la differenziazione delle cellule. Questo perché i composti come il bisfenolo, l’octilfenolo e il Ddt hanno una struttura molecolare estremamente simile agli ormoni e riescono quindi a mimarli, scombussolando così il delicato equilibrio necessario per uno sviluppo normale. Il bisfenolo, per esempio, riesce a mimare l’effetto dell’estradiolo, un ormone femminile responsabile tra le altre cose dello sviluppo, della maturazione e funzionamento degli organi sessuali e della regolazione della riproduzione.

Che ci sia un reale pericolo anche per l’uomo è ancora oggetto di discussione fra gli scienziati. In teoria, infatti, i meccanismi base di funzionamento del sistema endocrino sono uguali per tutti i vertebrati. Si può quindi per lo meno sospettare che il feto umano reagisca analogamente a quello del topo se esposto a una uguale dose di bisfenolo. A mitigare le preoccupazioni c’è però un altro dato rilevato dai ricercatori americani: nella maggior parte dei casi animali diversi reagiscono in modo differente anche se esposti allo stesso agente chimico. L’équipe di Howdeshell, per esempio, ha scoperto che l’effetto del bisfenolo è diverso a seconda della posizione del feto nell’utero.

Come in una collana di perle, gli embrioni di topo formano una catena nell’utero della femmina. Gli ormoni endogeni, prodotti cioè dalla madre, raggiungono i feti in maniera diversa a seconda della posizione occupata: quello tra due femmine riceve più estradiolo, mentre quello tra due maschi ne riceve di meno. Allo stesso modo, vista la capacità del bisfenolo di mimare l’ormone, i ricercatori hanno dimostrato che i feti di sesso femminile più esposti all’estradiolo sono stati proprio quelli più colpiti dal bisfenolo. Evidenziando così che basta anche un lieve aumento dell’esposizione all’ormone per incrementare la sensibilità del feto verso la sostanza chimica.

La quantità di ormoni endogeni a cui vengono esposti i feti nell’utero, quindi, è un fattore che varia non solo da specie a specie, ma tra diversi individui della stessa specie e anche nell’ambito dello stesso individuo in stadi diversi della sua vita. Cosa possiamo concludere quindi sugli esseri umani? I ricercatori ancora non si sbilanciano: per capire l’entità del rischio a cui è veramente esposto un feto umano bisognerà considerare la quantità di ormoni endogeni a cui è esposto. Un conto non semplice in cui bisogna tener presenti il numero di gravidanze già avute dalla donna, le dimensioni della placenta e se si tratta di un bambino solo o magari di due o più gemelli.

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