La scienza del dissenso

L’ideogramma cinese che corrisponde alla parola “saggio” è un orecchio stilizzato. Oggi, dopo la morte di Deng Xiaoping, la saggezza della Cina consisterà sempre di più nel saper ascoltare attentamente i fermenti di una popolazione al bivio tra occidente e oriente, capitalismo e socialismo. In questa ricerca di democrazia, la scienza potrebbe assumere un ruolo politico non secondario. Ma in che modo? Una delle risposte a questa domanda è contenuta nel libro “Scienza e dissenso nella Cina post-Mao: la politica della conoscenza”, pubblicato in gennaio dalla casa editrice americana University of Washington Press e che, si spera, avrà presto una traduzione italiana. L’autore, uno yankee doc, H. Lymann Miller, nasce come fisico matematico all’Università di Princeton ma cresce come storico della Cina. Dopo sedici anni passati a lavorare per il governo degli Stati Uniti come esperto di politica estera cinese, Miller si è finalmente potuto dedicare unicamente alla ricerca storica sulla Cina. Galileo lo ha intervistato.

Professor Miller, a prima vista può sembrare strano che un occidentale scriva un libro su un argomento così peculiare come il rapporto tra scienza e politica in Cina. Come è arrivato a questa idea?

“Riconosco che possa sembrare strano, ma la mia opera è lo specchio della mia vita: sono uno scienziato e insieme un esperto di storia della Cina, paese in cui ho vissuto a lungo. Durante gli anni in cui lavoravo come esperto di poltica cinese per il governo americano leggevo periodicamente la stampa cinese. Ed è da qui che nasce l’idea del libro. Nel 1980 fui particolarmente colpito da una nuova rivista: il “Bollettino della Dialettica della Natura”. Mi aspettavo un astruso periodico di filosofia marxista, e con mia sorpresa trovai, invece, un giornale brulicante di idee contrastanti con il punto di vista marxista sulle teorie sceintifiche. Molti autori di questi articoli divennero più tardi, verso la fine degli anni ‘80, degli scienziati dissidenti. Così decisi di scrivere un libro che raccontasse la storia di queste persone, una nuova tipologia di dissidenti che promuovevano le loro idee liberali avendo come propria bandiera la scienza. La scienza, infatti parte dal dubbio. Il dissenso è lo strumento principe per l’avanzamento intellettuale ed è l’atteggiamento più congeniale agli scienziati”.

Quali sono, secondo lei, le differenze tra Cina e ex Unione Sovietica nel campo della ricerca scientifica?

“Fino all’inizio degli anni’80 la Cina ha adottato un sistema istituzionale per la ricerca del tutto simile a quello della Russia stalinista. Prova ne sia il fatto che negli anni ‘50 la Repubblica Cinese riorganizzò la sua comunità scientifica con un forte sostegno da parte della Russia. L’Accademia Cinese delle Scienze era un organo del consiglio di Stato, del tutto simile all’assemblea dei Soviet, la ricerca scientifica era soggetta agli interessi statali, le tecnologie militari si portavano avanti in gran segreto, lontano dalle università e dai laboratori di ricerca. La svolta rispetto a questo modello si è avuta nei primi anni’80, quando la Cina si è distaccata dal modello stalinista. Agli scienziati è stata data più autonomia, la formazione di gruppi di ricerca è stata incoraggiata. Infine, la struttura statale è stata parcellizzata, ridimensionata e finalizzata al finanziamento di progetti scientifici che possano migliorare economicamente la società cinese”.

Secondo lei, in che modo la Cina ha interpretato il binomio “scienza-democrazia”?

“Durante gli anni ‘20, ai tempi del movimento del Quattro maggio, scienza e democrazia suscitavano emozione, volontà di cambiamento. La democrazia era vista da molti intellettuali cinesi come il mezzo più efficace per unificare una nazione frammentata, mentre la scienza era considerata la radice del potere occidentale. Così scienza e democrazia erano diventate due parole chiave per “salvare” la Cina. Il partito comunista cinese fu fondato proprio in quegli anni, ed ebbe seguito anche perché l’ideologia marxista-leninista si definiva “scientifica”.

E adesso, dopo la morte di Deng, quale potrà essere il futuro della ricerca scientifica?

La Cina ha un’ampia comunità di scienziati, e certamente raggiungerà una buona postazione nella gara della ricerca mondiale per l’avanzamento scientifico. Il fatto che nessun scienziato cinese sia stato ancora insignito di un premio Nobel suscita imbarazzo in patria, e l’ambizione a conquistare una fama internazionale in questo campo farà da spinta propulsiva. Ma la scienza cinese è ancora relativamente giovane. E’ nata nel XX secolo, ma solo 10-15 anni fa si è affermata una vera e propria comunità di scienziati. Per anni i cinesi sono stati isolati per motivi politici, mentre la scienza è necessariamente internazionalista”.

Ritiene che Internet possa essere una “scappatoia” per gli scienziati cinesi, visto che il controllo sulla rete è quasi impossibile?

“Probabilmente sì, almeno in parte, visto che le autorità cinesi non possono esercitare alcun controllo politico sulle relazioni via cavo. Minacciano di filtrare il traffico di Internet, ma sarebbe come voler mettere l’acqua dell’oceano in una fossa”.

Non pensa che, anche se in modo meno pesante, anche un paese come gli Stati Uniti eserciti una sorta di controllo politico ed economico sulla ricerca scientifica, dal progetto genoma alla Big Science della tecnologia spaziale?

“E’ vero, anche nei paesi occidentali la scienza subisce una sorta di pressione politica. Ma per quanto pesante possa essere questa pressione, c’è sempre la possibilità di denunciarla, a differenza di quanto accade in Cina. Basta ricordare la protesta pubblica degli scienziati americani contro il divieto governativo di pubblicare le loro scoperte sulla tecnologia spaziale perché coinvolte nella politica militare di Reagan. E comunque, la pressione economica sulla Big Science, ampia ma “soft”, sarà una cosa con cui sia noi sia i nostri colleghi cinesi dovremo sempre fare i conti.

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