La sfida del genoma umano

Un’esplorazione lunga 15 anni si è conclusa. Da quando, nel 1986, è iniziato il Progetto Genoma Umano, al 15 e 16 febbraio 2001, quando le riviste scientifiche Nature e Science hanno pubblicato la mappa genetica dell’Homo sapiens. L’impresa non è stata facile: il nostro Dna, diviso nei cromosomi, è composto da circa tre miliardi di basi. Leggerle tutte, e metterle nella giusta posizione ha richiesto miliardi di dollari di finanziamenti, e appunto quasi 15 anni. A complicare il tutto è giunta poi la concorrenza tra il Consorzio pubblico internazionale che avviò il progetto nel 1986, e la Celera Genomics, azienda privata fondata nel 1998 da un fuoriuscito dagli National Institutes of Health americani, Craig Venter. Che, sulla base di un nuovo metodo di sequenziamento più rapido ma meno preciso e grazie agli archivi del consorzio pubblico (liberi e aggiornati quotidianamente), in pochi anni ha raggiunto i concorrenti, così da costringerli a scendere a patti con lui.

È stato infatti Venter nell’estate del 2000 ad annunciare al mondo di essere vicino alla meta. Clinton e Blair si erano subito affrettati a frenarne lo slancio, dichiarando che nessuno poteva brevettare il Dna umano. Ma Venter, pur avendo ricevuto numerose critiche sulla effettiva esattezza della sua sequenza (che è in realtà meno accurata della mappa pubblica), ha trascinato il Consorzio in un braccio di ferro che si è concluso con la rottura delle trattative, e la conseguente pubblicazione separata delle sequenze. Su Nature il Consorzio pubblico, su Science la Celera.

Ma anche se queste sono beghe di cortile, rimane il risultato scientifico, che ci permette di avere finalmente tutte le lettere di cui è composto “il libro della vita”. Ovviamente, dobbiamo ancora imparare molte cose: come dividere le parole tra loro, e la grammatica di questa lingua chimica. Questo primo, enorme passo appare però indispensabile, perché indica dove muoversi nella ricerca degli elementi che regolano la nostra vita biologica: i geni.

Proprio a proposito dei geni arriva la notizia più clamorosa: dalla mappatura emerge una stima di circa trentamila, mentre ancora pochi mesi fa si parlava di un numero variabile tra i cinquanta e i centomila. Questo vuol dire che abbiamo solo il trenta per cento di geni in più rispetto all’Arabidopsis thaliana, la senape selvatica, e poco più del doppio rispetto a Drosophila melanogaster, il moscerino della frutta. Non sono quindi solo i geni ciò che rende umani, ma piuttosto l’enorme complessità delle loro interazioni. È lì che dobbiamo cercare quella scintilla che ormai diversi milioni di anni fa ha diversificato l’essere umano dalle grandi scimmie con le quali ha in comune il 99 per cento del Dna.

Quindi, la genomica e il suo più alto traguardo aprono il campo alla proteomica, lo studio della funzione delle proteine negli organismi. Sono infatti queste a regolare il funzionamento del metabolismo, nonché l’attività degli stessi geni. Fatto questo, avremo finalmente un’immagine realistica di ciò che è “umano”.

La complessità di tale impresa, nel passato ma soprattutto nel futuro, è tale da dover ricorrere necessariamente all’informatica, non solo per lo stoccaggio e il trattamento dei dati, quanto piuttosto per la possibilità di studiare le migliaia di interazioni interne al genoma e il comportamento dei geni e delle proteine nel tempo. La bioinformatica sembra dover diventare la grande protagonista dell’era post-genoma.

Paradossalmente, la mappa del genoma è quindi importante per il suo futuro, non per il passato. Per questo fa sorridere l’enfasi dei media sul Dna e su una visione dell’uomo equivalente ai suoi geni. La genetica è indicata come la soluzione a tutti i mali. È innegabile che maggiori sono le conoscenze, maggiori sono i benefici che potrebbero derivarne. Ma non possiamo dimenticare che al singolo gene molto raramente si può far corrispondere un singolo tratto dell’organismo, nell’uomo, nel topo, nella mosca.

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