La storia di Waris

E’ molto bella. Tanto, che una camicetta di cotone bianco e i capelli raccolti in un foulard non contano proprio. Waris Dirie, fotomodella somala conosciuta in tutto il mondo, è di fronte al pubblico e agli obiettivi ancora una volta. Ma l’occasione non è una sfilata di moda. Questa volta, nell’austera sala di un antico palazzo al centro di Roma, Waris parla in veste di ambasciatrice dell’Unfpa (Fondo delle Nazioni unite per la popolazione). E presenta “Face to Face” la campagna internazionale contro le mutilazioni genitali femminili lanciata recentemente dalla stessa Unfpa (http://www.unfpa.org). In Europa, l’iniziativa coinvolge 19 organizzazioni non governative, mentre nel nostro paese prevede una ricerca all’interno della comunità somala di Torino e di quella nigeriana di Roma, oltre che nei centri di accoglienza e nelle strutture sanitarie delle due città. Le attività saranno coordinate dall’Aidos (Associazione donne italiane per lo sviluppo – http://www.unimondo.org/soci/org/AIDOS.html), portabandiera italiano per la campagna.

E per i giornalisti presenti, l’incontro con Waris Dirie è stato proprio un “faccia a faccia”. Un incontro intenso. Anche perché quando si parla di mutilazioni genitali femminili Waris non è solo una ambasciatrice, ma è prima di tutto una vittima che ha avuto il coraggio di testimoniare. Arrivata a circa trent’anni (quando è nata nessuno della sua famiglia ha annotato la data), divenuta ricca e famosa, ha affidato al sua storia a un libro: dalla vita nomade nei deserti africani all’esclusivo mondo delle top model, senza nascondere anche i momenti più bui. E anche di fronte a questo pubblico che non doveva solo apprezzare la sua grazia e la sua eleganza, non si è risparmiata. Non si è vergognata delle lunghe pause dettate dall’emozione troppo forte. Ha raccontato di quando, a cinque anni, la madre l’ha svegliata all’alba per andare nella foresta a farla “circoncidere”. “L’esperienza più atroce della mia vita. Se non ci si è passati, non si può capire. Voglio che questa pratica che offende così profondamente le donne venga abolita, nel mio paese e in tutto il mondo”. Un messaggio forte per quanti credono che le mutilazioni genitali femminili siano una pratica culturale da rispettare, o qualcosa che interessa solo persone molto lontane da noi. Detto da lei, così nera, così bella e così ammirata.

Il testo che segue è tratto dal libro “Fiore del deserto – Storia di una donna”, Garzanti, 29.000 lire

La sera prima del giorno fissato per la mia infibulazione, mia madre mi disse di non bere troppo, perché così non avrei dovuto orinare troppo spesso. Non capii il senso di quella raccomandazione, ma non feci questioni e mi limitai a un cenno del capo. […] Quella sera i miei familiari mi trattarono con insolito riguardo, e a cena ricevetti una razione extra di cibo. Anche questo faceva parte della tradizione che, in passato, mi aveva indotto a invidiare le mie sorelle maggiori. Prima di andare a dormire, mia madre mi disse: “Domattina, quando sarà ora, verrò a svegliarti”. Non capivo come potesse essere certa dell’arrivo di quella donna, ma mia madre sapeva sempre se stava arrivando qualcuno o se era giunto il momento adatto a una determinata cosa.

Quella notte non chiusi occhio per l’agitazione. Quando vidi arrivare mia madre, non era ancora giunta l’alba, e il cielo buio si schiariva solo impercettibilmente all’orizzonte. Mi fece cenno di fare silenzio e mi prese per mano. Io afferrai la mia piccola coperta e, ancora mezza addormentata, la seguii barcollando. Ora so perché le ragazze vengono prelevate così di buon’ora: sbrigano la faccenda prima che gli altri si sveglino, in modo che nessuno possa sentire le urla. Allora, però, sebbene fossi frastornata, feci come mi era stato ordinato. Ci allontanammo dalla capanna e ci inoltrammo nella boscaglia. […] Ben presto, udii il tramestio dei sandali della zingara. Mia madre la chiamò e disse: “Sei tu?”

“Sì, da questa parte”, rispose la zingara, vicina ma invisibile. A un tratto, me la ritrovai accanto. “Siediti lì”, disse, senza convenevoli, indicando una pietra piatta. Non un saluto, né frasi tipo: “Quel che ti farò sarà molto doloroso; quindi sii coraggiosa”. Niente di niente. La zingara era una che badava al sodo.

Mia madre staccò da un albero un pezzo di radice e mi accomodò sulla pietra; quindi si sistemò alle mie sopalle e mi fece appoggiare la testa contro il suo petto, mentre con le gambe mi cinse la vita. Io mi aggrappai alle sue coscie e lasciai che mi infilasse la radice tra i denti. “Stringi forte”.

Restai paralizzata dalla paura, quando mi tornò alla mente l’immagine della faccia stravolta di Aman. “Mi farà male!”, balbettai con la radice tra i denti.

Mia madre si chinò su di me e mi sussurrò all’orecchio. “Se ti divincoli, io da sola non ce la faccio a tenerti; quindi, cerca di fare la brava. Sii coraggiosa, e vedrai che presto sarà tutto finito”. Sbirciai tra le mie gambe e vidi che la zingara si stava preparando. Aveva l’aspetto di una normalissima donna somala, con il suo telo colorato avvolto intorno alla testa e la sgargiante tunica di cotone, senonché sul suo volto non si vedeva neppure l’ombra di un sorriso. Mi fissò con i suoi occhi spenti e, poi, si mise a frugare in una vecchia borsa da viaggio. La seguii con estrema attenzione perché volevo vedere lo strumento con cui mi avrebbe operato. Mi aspettavo un coltellaccio, ma la zingara estrasse, invece, un minuscolo sacchetto di cotone. Vi infilò le sue lunghe dita e ne tolse una lama di rasoio spezzata. La esaminò, rigirandola più volte da una parte e dall’altra. Il sole stava appena spuntando, e la poca luce era sì sufficiente a percepire i colori, ma non consentiva ancora di cogliere i dettagli. Riuscii, comunque, a scorgere del sangue rappreso sul filo sbocconcellato di quella lama. La zingara vi sputò sopra e la ripulì sul suo vestito. Mentre lei sfregava, su di me spuntò l’oscurità, perché mia madre mi coprì gli occhi con una benda.

A quel punto sentii la carne dei miei genitali che veniva lacerata e il rumore sinistro di quella lama che andava avanti e indietro. Quando ci ripenso, non riesco proprio a credere che mi sia successo veramente, e ho la sensazione che si tratti di un’altra persona. Impossibile spiegare cosa si prova: è come se qualcuno vi tagliasse a brandelli una coscia o un braccio, senonché nel mio caso i tagli venivano praticati sulla parte più sensibile del corpo. Ciononostante, non mi mossi di un millimetro […]. E poi, volevo che mia madre fosse fiera di me. Restai lì seduta come pietrificata, ripetendomi che quanto meno mi sarei mossa, tanto più breve sarebbe stata la tortura. Purtroppo, però, le mie gambe cominciarono a tremare spontaneamente, percorse da spasmi incontrollabili, e io pregai Dio affiché quel tormento finisse al più presto. E così fu, in un certo senso, perché subito dopo persi i sensi. […]

Sebbene io abbia sofferto a causa dell’infibulazione, posso ritenermi fortunata. Le cose possono andare molto peggio. Durante i nostri spostamenti, incontravamo diverse famiglie, con le cui figlie io ero solita giocare. Quando capitava di incontrarsi di nuovo, molte di queste bambine non c’erano più. Nessuno diceva la verità sulla loro scomparsa e, anzi, si evitava persino di parlarne. Erano morte a causa dell’infibulazione: dissanguate, per la paura, in seguito a infezione o per il tetano. Viste le condizioni in cui quell’operazione viene eseguita non c’è da meravigliarsi. La cosa sorprendente è che vi sia chi riesce a sopravvivere.

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