La terra dei sogni

Il tempo psichico ha molte declinazioni e ogni condizione psicologica ha le sue preferite. C’è il passato, non prossimo né remoto, ma ripetitivo dell’ossessivo. Così come c’è il presente che non passa, fisso, immobile, senza prima né dopo, del depresso.La fase maniacale di talune psicosi è declinata tutta con verbi al futuro, lo spazio introspettivo invece quasi sempre è al passato. Insomma, al di là dell’orologio biologico che quotidianamente, con maggiore o minore precisione, scandisce lo scorrere delle ore e dei minuti; al di là della dimensione geometrica e matematica del tempo oggettivo, ognuno di noi ha un proprio vissuto soggettivo del tempo che può non corrispondere affatto alla realtà esterna. I tempi degli innamorati, si sa, sono eterni fin quando l’amore dura, estremamente brevi quando l’amore si consuma.

Ma ci sono anche situazioni in cui il tempo non esiste o, quanto meno, viene percepito come una condizione di panacea originaria, dove l’istante si perde, la consecutio logica degli eventi si confonde e le cose semplicemente “accadono” su un piano di simultaneità, senza che sia possibile definire – sulla base di un prima e di un dopo – da dove siano scatenate e quali conseguenze abbiano determinato.

Platone sosteneva che una simile circostanza era prerogativa esclusiva del folle e dell’innamorato. Volendo dare alla parola “folle” la sua accezione più ampia e di ascendenza greca, esso è colui che vive in uno stato estatico di prossimità agli dei. In altre parole: è fuori dal tempo, perché vive attingendo a una dimensione “altra”. E’ folle il malato psichiatrico, è folle l’artista, è folle l’innamorato, ma sono folli anche tutti i personaggi del sogno, compreso colui che sogna e, almeno per lo spazio di una notte, è disposto a credere alla realtà delle proprie immagini oniriche.

Allan Hobson, neuropsichiatra americano, nel suo libro “Sognare: una nuova visione mente-cervello” (Di Renzo, 1999), afferma che ognuno di noi, ogni giorno, nello spazio di una notte, si concede almeno un’ora di follia. Ogni 90 minuti di sonno, infatti, subentra nel nostro cervello una fase Rem (Rapid eye movement) in cui i neuroni cominciano ad attivarsi a caso, come in stato di veglia, ma senza la supervisione della coscienza. Il risultato di questo caotico spostamento di input, che riverberano da un parte all’altra del cervello, sono le cosiddette immagini oniriche.

A detta dello scienziato americano tutto ciò servirebbe al cervello per riordinare le informazioni raccolte durante la veglia, buttando quello che non serve e archiviando quello che dovremo ricordare il giorno dopo o negli anni a seguire. Per la psicoanalisi le immagini oniriche non sono soltanto il prodotto di riverbero dell’attività encefalica, hanno anche un intrinseco valore simbolico che non starò qui a spiegare.

Quello che invece ci interessa è che, almeno durante lo svolgimento di una scena onirica, il tempo non esiste. E che deve esserci qualcosa di altrettanto onirico anche in tutte quelle situazioni di “follia” sopra menzionate. Probabile che in particolari momenti venga a mancare la supervisione di una parte del nostro cervello, che qualche interruttore si spenga e che qualche neurone non funzioni, ma potrebbe esserci anche una spiegazione meno fisiologica di questa sospensione temporale.

Mi riferisco alle considerazioni di Jung, così come vengono esposte nel suo scritto “La sincronicità come principio di nessi acausali” (Boringhieri, 1994). Secondo lo psicoanalista svizzero ci sono due piani di “consapevolezza” che interagiscono all’interno della nostra psiche. Il piano della coscienza, legato al principio dei nessi causali e alle leggi di causa-effetto, del prima e del dopo, che determina il nostro rapporto con la realtà esterna. E il piano dell’inconscio, che determina il nostro rapporto con la realtà interna, guidato da nessi acausali, volutamente estranei alla legge secondo cui a una causa corrisponde un determinato effetto. Jung li definisce entrambi “piani di consapevolezza” perché attingono comunque a una forma di conoscenza.

Laddove subentra un abbassamento del livello di coscienza – quindi nei sogni, nell’estasi, nell’arte, nella follia e in tutte le manifestazioni inconsce in senso lato – emerge il piano acausale che guida le funzioni più arcaiche della psiche. Da una prospettiva mitologica esso attinge alle origini, a quelli che Jung chiama “archetipi dell’inconscio collettivo”, ossia alla comune matrice spirituale della specie umana. Torniamo pertanto alla posizione platonica di comunicazione estatica con il mondo degli dei.

Sappiamo benissimo che nel Pantheon delle divinità antiche, gli avvenimenti erano guidati all’apparenza dal capriccio del destino, piuttosto che da un necessario effetto di una determinata causa. Gli eventi erano descritti su un piano di contemporaneità (solo più tardi è subentrata la discendenza e quindi la linearità temporale).

Brevemente, il tempo dei miti è circolare, ripetitivo, la successione degli eventi viene trascurata in virtù di una legge cosmica che riconduce ogni cosa alla sua origine. E’ il tempo della narrazione del mito che riconduce la contemporaneità alla linearità. Lo stesso si può dire per il sogno la cui unica legge temporale certa è quella della contemporaneità.

Le immagini oniriche sono bidimensionali, nel senso in cui vengono affiancate l’una all’altra su uno stesso piano: una persona morta compare accanto a una ancora viva, l’estraneo è familiare e il familiare è estraneo. Non si può parlare di una successione di immagini. L’idea della successione subentra solo a posteriori, nel racconto da svegli: “mi sembra che prima accadeva questo e poi quello”, “forse mi parlava mentre arrivava quell’altra persona”. “Prima, poi, mentre” sono tutte inferenze che la nostra mente disegna a freddo, nel cercare di ricostruire un senso, ma che erano assolutamente assenti nel momento in cui sognavamo.

Se la successione temporale è sfalsata e se la dimensione prospettica del sognatore si svolge tutta su un solo piano, non dovrebbe stupire che anche la dimensione spaziale delle immagini oniriche risulti contraddittoria. Gli studi sulle origini del pensiero umano ci dicono che il concetto di tempo è nato come necessità dello spazio. Sapere quanto tempo ci vuole per andare da un posto all’altro, quindi per muoversi nello spazio, era una necessità di non poco conto per l’uomo primitivo.

Eppure psichicamente è vero esattamente l’opposto: lo spazio viene misurato come successione di momenti fisici differenti nel tempo. E’ una conseguenza del trascorrere del tempo. Come a dire: nell’istante A sono in un certo punto, nell’istante B sono in un altro punto, ne consegue che ho compiuto un movimento e che quindi si è creato uno spazio fisico tra il momento A e il momento B. La direzione del movimento viene dedotta dalla successione di A e di B.

Tutto ciò ci riconduce ad un’altra caratteristica del sogno – tipica anche di molte psicosi – ossia al sentimento di ubiquità. Nel sogno ci si sposta molto facilmente da un posto all’altro, da un’ambientazione a un’altra. Ma parlare di spostamento non è corretto (anche questo è il frutto di una rielaborazione da svegli). Di fatto nel sogno non si va da nessuna parte, si è sempre stati.

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