La vita su misura

    Dal 1990 l’indice di sviluppo umano (ISU) è stato adottato dall’ UNDP (United Nation Development Program – http://www.undp.org) come strumento per misurare lo stato e l’evoluzione dello sviluppo nei differenti paesi. I rapporti UNDP fanno inoltre riferimento allo sviluppo sostenibile, concetto che occupa un posto chiave nella definizione delle politiche di diverse organizzazioni internazionali, e che rimane per diversi aspetti ancora controverso. Qui di seguito si cerca di mettere in luce alcuni degli aspetti più rilevanti del dibattito sullo sviluppo sostenibile, di confrontare tale concetto con quello di sviluppo umano e, ripercorrendo brevemente la storia degli indicatori sociali e del loro ruolo nelle teorie dello sviluppo, di analizzare l’ISU per verificarne la coerenza rispetto ad entrambi i concetti.

    Il ruolo degli indicatori sociali nelle teorie dello sviluppo

    Il tema di cui trattano brevemente queste pagine è stato e continua ad essere un argomento tipicamente “di frontiera”, che si colloca cioè a un punto che più che di convergenza sarebbe forse meglio definire di confronto e di contatto fra diverse discipline. Agli indicatori sociali sono state infatti attribuite funzioni di indagine, di analisi e di decisione in campo politico e sociale e, di conseguenza, si è richiesto loro di individuare le componenti rilevanti dei fenomeni sociali; di descriverne adeguatamente le tendenze; di considerarne i diversi aspetti in maniera esauriente e di quantificarli, ove possibile, con accuratezza e precisione; di permettere comparazioni a livello internazionale, tra gruppi e settori sociali e a livello interpersonale; di essere degli strumenti agili da usare e di facile lettura in sede decisionale.

    Dalla nascita del “movimento per gli indicatori sociali” ad oggi si continua ad oscillare, alla ricerca di misure (e di definizioni) del benessere e dello sviluppo, tra un polo “oggettivo” ed uno soggettivo, di volta in volta diversamente intesi. Qui di seguito si cercherà di fornire una succinta panoramica delle posizioni in materia che, seppur limitata, può risultare utile a illustrare come il processo di valutazione delle informazioni e di selezione degli indicatori contribuisca anche alla chiarificazione degli obiettivi della ricerca in campo socioeconomico. Attraverso tale contributo all’epistemologia dei meccanismi sociali, per usare i termini di Horn, gli indicatori acquistano una funzione euristica (Horn 1980).

    Il movimento per gli indicatori sociali
    Gli indicatori sociali hanno costituito un campo di ricerca privilegiato per le organizzazioni internazionali, in particolare per l’ONU, che fin dai primi anni ‘50 ha realizzato studi in questo ambito sia a livello teorico che empirico, e successivamente per l’OCSE. Come strumenti di indagine e di supporto alla decisione politica in campo sociale, gli indicatori sociali hanno avuto ampia diffusione a partire dalla seconda metà degli anni ‘60, sull’onda del crescente interesse per i cambiamenti sociali, soprattutto negli Stati Uniti, per trasmettersi poi nei primi anni ‘70 agli ambienti europei. Il movimento per gli indicatori sociali, al quale hanno preso parte studiosi di diverse discipline, dalla sociologia all’economia e alla psicologia, si è inserito nel dibattito generale in campo economico, politico e sociale sui temi del benessere, della crescita e dello sviluppo, ed ha rappresentato, almeno con la corrente in cui prevaleva l’impostazione oggettiva rispetto a quella soggettiva, un tentativo di superamento della contraddizione tra l’aspirazione degli economisti a cogliere ed analizzare non solo i flussi di beni e servizi, ma anche il benessere che da questi derivano alla società, e l’insufficienza degli strumenti teorici prodotti dalle varie scuole di pensiero, da quella dell’utilità marginale a quella dell’economia del benessere.

    Il giudizio di inadeguatezza si è esteso naturalmente dagli aspetti teorici agli strumenti analitici, fra i quali il PNL o PIL rappresenta il caso più discusso. Le critiche che a tale indicatore venivano rivolte dal cosiddetto “movimento per gli indicatori sociali” riflettevano infatti l’emergere del contrasto tra le nuove teorie che ponevano l’accento sullo sviluppo e quelle che vedevano nella crescita economica la premessa che avrebbe permesso agli altri paesi di colmare il “ritardo” rispetto a quelli industrializzati, passando attraverso successive fasi di modernizzazione. In questa ottica si tendeva ad utilizzare il PIL come strumento di controllo dell’andamento economico e di confronto tra paesi, identificando la crescita del settore moderno (industriale) dell’economia con la crescita del benessere e lo sviluppo. In particolare il PIL è stato criticato sia sul piano economico sia soprattutto sul piano della sua adeguatezza in quanto indicatore di benessere.

    Tali critiche si sono concentrate principalmente su tre aspetti: l’omissione delle attività non di mercato (specialmente rilevanti per molte società di paesi in via di sviluppo); il carattere di macro-aggregato di questo indicatore, con la conseguente sopravvalutazione dei prezzi in quanto segnali attendibili e neutrali dei contributi delle varie attività al benessere collettivo; la scarsa attenzione rivolta agli aspetti distributivi sia nell’ambito di un dato periodo di tempo, riguardo alle possibili diseguaglianze tra individui, gruppi e classi sociali, sia rispetto al confronto tra diversi periodi, riguardo alle diseguaglianze generazionali (Miles 1985). Per correggere il PIL e trasformarlo in un indicatore globale di sviluppo si è cercato di modificare la contabilità nazionale inserendovi i dati relativi alle esternalità (soprattutto negative, come nel caso dei danni ambientali o dei costi legati all’inefficienza della pubblica amministrazione), al lavoro domestico, alla maggiore disponibilità di tempo libero e sottraendo i dati relativi alle attività non rilevanti dal punto di vista del benessere. Oltre alle difficoltà di valutazione in termini monetari delle attività non registrate dal mercato vi sono altri problemi rilevanti, quali l’adeguatezza dei prezzi a rappresentare i fenomeni in termini di benessere, nel caso siano espressi dal mercato, e la questione della valutazione del contributo che determinati beni e servizi (e i vari input e attività intermedi necessari a renderli disponibili) danno al benessere, nel caso che i prezzi debbano essere in tutto o in parte attribuiti. Tali misure corrette del PIL, secondo Miles, non costituiscono degli strumenti utili alla comprensione né elementi statistici di immediata rilevanza politica, ma al contrario possono rivelarsi degli “esercizi dagli effetti oscurantisti” (Miles 1985).

    Sempre in questo ambito, una distinzione di ordine concettuale è quella introdotta da Drewnowski, il quale rileva che il prodotto nazionale pro-capite rappresenta i costi che la società ha sostenuto per rendere disponibili beni e servizi, mentre il “benessere misurabile” (di cui ci occuperemo più avanti) rappresenta il beneficio che si ritiene la società derivi da essi (Drewnowski 1974).

    La qualità della vita

    Approcci oggettivi e approcci soggettivi
    Se l’identificazione tra reddito e sviluppo, tra reddito e benessere, va abbandonata, occorre definire un nuovo oggetto di analisi e, conseguentemente, gli strumenti analitici adeguati: “basic needs”, qualità della vita, “human development” sono alcuni dei termini utilizzati per rappresentare i concetti che hanno animato e tuttora animano il dibattito sullo sviluppo. La ricchezza terminologica riflette la molteplicità dei contributi che si sono susseguiti, e infatti gli stessi protagonisti hanno lamentato la mancanza, all’interno del movimento per gli indicatori sociali, di univocità sia a livello teorico che terminologico, in conseguenza dell’eterogeneità degli approcci di coloro che vi approdavano da differenti discipline e posizioni.

    I sostenitori dell’approccio oggettivo si sono impegnati in un tentativo di chiarificazione, a cominciare dalla definizione stessa dell’oggetto di indagine: la qualità della vita. Secondo McCall, quest’ultima non va fatta coincidere con la felicità, concetto in cui le percezioni, o preferenze, individuali appaiono ancora troppo rilevanti, ma piuttosto col soddisfacimento delle condizioni necessarie per raggiungerla. In particolare, l’analisi va ristretta alle sole condizioni generali, tralasciando quelle individuali. Se la qualità della vita viene definita in termini di felicità generale, le condizioni di base per assicurare quest’ultima consistono nel dare agli individui i mezzi per soddisfare i bisogni umani universali.

    Dopo aver ricavato, per contrapposizione rispetto ai desideri, una definizione implicita dei bisogni, McCall si rifà alla classificazione di Maslow che ordinava i “bisogni universali umani” secondo la seguente scala di priorità:
    1) necessita fisiologiche;
    2) sicurezza, ovvero protezione e garanzia del soddisfacimento delle necessita fisiologiche per il futuro;
    3) appartenenza, cioè il bisogno di amare ed essere amati;
    4) stima, per se stessi e per gli altri;
    5) autorealizzazione.

    McCall riconosce che la maggior parte di questi bisogni può essere definita come “psicologica”, nel senso che ciò che si vuole ottenere soddisfacendoli è il raggiungimento di uno stato psicologico di benessere o di felicità, ma sostiene che “se lo stato finale è psicologico, non lo sono i mezzi necessari per raggiungerlo”. Drewnowski ha sostenuto la necessità di collocare questi bisogni all’interno di una delle discipline sociali, in particolare di quella economica, per dotare gli indicatori sociali dei presupposti teorici necessari a chiarirne gli scopi e gli obiettivi e a trasformarli da semplici misuratori in strumenti analitici (Drewnowski 1980). Ciò che egli propone è di individuare gli aspetti quantificabili dei fenomeni sociali e di misurarli indirettamente in termini reali, utilizzando unità di misura fisiche specifiche per ciascun indicatore. L’oggetto di ricerca è rappresentato dal “benessere misurabile”, cioè da quegli elementi osservabili e significativi a livello macroscopico, quantificabili allo stato attuale della conoscenza, e che, una volta quantificati, siano indicativi del miglioramento o del peggioramento delle condizioni di vita della popolazione. Ciò che deve essere quantificato sono quindi quegli elementi che rappresentano un indice di soddisfazione dei bisogni umani “generalmente riconosciuti” e “universalmente validi”. Il benessere così definito, può essere misurato sotto due forme, quella di flusso e quella di dotazione o stock, rispettivamente mediante un indice del livello di vita e un indice dello stato del benessere.

    I termini dello contrapposizione
    Alla base della scelta di un approccio oggettivo, basato su fatti osservabili e non su giudizi individuali, vi sono diverse motivazioni: la volontà di superare i problemi di misurazione e aggregabilità tipici della funzione di utilità individuale; l’esistenza di distorsioni dovute all’adattamento psicologico degli individui a condizioni avverse o sfavorevoli e al condizionamento culturale esercitato dalla società su gruppi o categorie di persone; la mancanza di correlazione tra condizioni oggettive osservabili e percezioni individuali della qualità della vita.

    Inoltre, se ciò che conta sono le percezioni individuali, perché siano prese in considerazione esse devono venire espresse: occorre allora domandarsi in quale conto vengano tenute le percezioni di una persona incapace di esprimersi a riguardo, ad esempio un bambino, un malato o un handicappato; se sia legittimo ricorrere a qualcuno che esprima un parere in loro vece (che evidentemente non potrà che essere basato sulle proprie percezioni e su un ragionamento tendente a stabilire quali sono i bisogni di una persona che si trovi nelle stesse condizioni del soggetto in questione) o se invece l’impossibilita o l’incapacità a esprimere un parere comportino semplicemente una perdita di “diritti”. Accettare un meccanismo di “rappresentanza” o di “tutela” per alcuni soggetti, ripropone un meccanismo di determinazione dei bisogni che ricalca quello dell’approccio “oggettivo”; se è vero infatti che nel caso in cui il “tutore” sia una persona dello stesso nucleo familiare sarebbe possibile evitare i problemi legati all’imposizione dall’esterno di un modello culturale, tale sistema non cessa di rappresentare qualcosa di diverso dalle percezioni individuali del soggetto e continua a risentire delle limitazioni imposte dai modelli sociali e culturali specifici (i bisogni di una bambina potrebbero ad esempio essere ritenuti socialmente irrilevanti rispetto a quelli di un bambino).

    D’altra parte l’approccio “oggettivo” si presta anch’esso a critiche tutt’altro che irrilevanti. In primo luogo la definizione della qualità della vita in termini universalmente validi comporta il rischio di proiettare su altri gruppi sociali e altre società i valori e i bisogni di classi o gruppi determinati e di ricadere in quella visione che identificava lo sviluppo con le condizioni attuali prevalenti nelle società industrializzate, e il sottosviluppo con la distanza da questo modello. In secondo luogo concentrare l’attenzione sui mezzi necessari a garantire il benessere porta a sopravvalutare l’importanza dei beni materiali e a privilegiare dati e indicatori relativi alla dotazione piuttosto che quelli relativi ai risultati, configurando un’analisi di tipo statico inadatta a cogliere la dimensione di processo dello sviluppo. Inoltre, occuparsi di gruppi sociali anziché di individui porta a trascurare una parte della realtà poiché non consente di cogliere problemi rilevanti quali la distribuzione di certi beni o servizi, come ad esempio il cibo e l’istruzione, all’interno dei gruppi familiari (Sen 1990).

    Verso il superamento della contrapposizione
    In contrasto con il concetto di benessere, inteso come ricchezza materiale e accumulazione di beni e identificato con il PIL, e di qualità della vita, intesa come l’insieme di beni e servizi a disposizione degli individui e dei gruppi sociali o come percezione individuale del benessere, il concetto di “human development” pone l’attenzione sullo sviluppo in quanto processo, e colloca gli esseri umani al centro delle diverse strategie rinunciando esplicitamente a considerarli come mezzi per altri fini. Anche in questo ambito si sono sviluppati diversi approcci, e Miles mette in luce l’evoluzione che si è verificata a partire dagli studi orientati alla soddisfazione dei “basic needs” lungo un percorso che ha portato l’analisi dapprima a concentrarsi sui bisogni di un individuo non più astratto ma collocato in un contesto storico e sociale ben determinato, e poi a rivolgersi alle cause che gli impediscono di sviluppare le proprie capacità al di là della pura e semplice sopravvivenza e riproduzione di un insieme di relazioni sociali precostituite. In sostanza, egli sottolinea come la soddisfazione dei basic needs costituisca un prerequisito dello sviluppo vero e proprio (Miles 1985).

    Allo scopo di valorizzare le conquiste sociali dal punto di vista dell’individuo senza intraprendere la strada delle valutazioni soggettive, Sen sostiene l’approccio basato sul concetto di capacità umane, che interpreta la vita delle persone come un insieme di attività e modi di essere definiti modalità di “funzionamento”. Per valutare la qualità della vita espressa dalle diverse modalità di “funzionamento”, che vanno da quelle più elementari, quali mantenersi in buona salute o essere adeguatamente nutriti, ad altre più complesse che riguardano la partecipazione alla vita sociale e l’affermazione della dignità individuale, non è sufficiente concentrarsi sulla disponibilità di beni, poiché essa non costituisce un fine in sé ma solo un mezzo per altri fini. Se le modalità di “funzionamento” rappresentano il conseguimento di un risultato da parte di un individuo e ne riflettono, almeno in parte, lo stato, la capacità è una nozione che deriva da questo concetto ed è espressione della libertà di scelta dell’individuo tra diversi modi di vita.

    Ritorna qui inevitabilmente il problema di selezionare alcune modalità di funzionamento in base alla loro maggiore o minore importanza, ed è a questo proposito che Sen mette in luce la contrapposizione dell’approccio basato sulle capacità rispetto a quello basato sul possesso di beni. La capacità costituisce una rappresentazione diretta della libertà, e se si tiene conto della libertà degli individui di determinare i propri scopi, gli stessi beni possono essere funzionali a scopi differenti. Inoltre le capacità di convertire i beni in risultati varia da individuo a individuo (tanto più in contesti sociali e culturali differenti) e quindi “un confronto interpersonale basato sul possesso di beni primari non è in genere in grado di riflettere anche il rispettivo grado di effettiva libertà per quanto riguarda il perseguimento di un qualsiasi scopo…” (Sen 1990, pag. 48). A tale libertà di scelta può essere attribuito un valore intrinseco o solamente strumentale; nel primo caso ciò che conta è la disponibilità di alternative; nel secondo è la disponibilità delle alternative effettivamente prese in considerazione dal soggetto. Avvertendo che ovviamente la libertà di vivere la vita che si desidera non può essere messa sullo stesso piano della libertà di vivere in un modo che si detesta, Sen sottolinea come l’approccio basato sulle capacità si spinga al di là del confronto tra i risultati realmente ottenuti dagli individui, puntando a una definizione più accurata delle modalità di funzionamento (nell’esempio di Sen, anche se il risultato è lo stesso, non si può valutare la morte di un suicida allo stesso modo di quella di chi muore di inedia senza potersi salvare). L’approccio di Sen è rilevante tra l’altro in quanto, come vedremo successivamente, condiziona il concetto di sviluppo umano utilizzato dall’UNDP.

    L’indice di sviluppo umano

    L’UNDP ha elaborato il primo rapporto sullo sviluppo umano e il corrispondente indice utilizzato per misurare i progressi dei diversi paesi in questo campo nel 1990. Da allora diverse critiche sono state mosse sia al concetto di sviluppo umano così come definito dall’UNDP che all’indice ISU.

    La definizione di sviluppo umano
    L’UNDP definisce lo sviluppo umano come “un concetto molto più ampio di quello di sviluppo economico”, che corrisponde ad un processo di ampliamento delle scelte degli individui. Queste possono essere infinite e mutare nel tempo ma, a qualsiasi livello di sviluppo, tre restano le scelte essenziali: vivere a lungo e in salute, acquisire conoscenza e disporre di risorse che consentano un livello di vita decente. In particolare, in contrasto con l’approccio basato sui basic needs che tendeva a privilegiare la disponibilità di risorse materiali, lo sviluppo umano considera due aspetti: da un lato la formazione di capacità; dall’altro l’uso che gli individui possono fare delle capacità acquisite. Il concetto si compone di quattro elementi: produttività, equità, sostenibilità e autodeterminazione, ovvero la partecipazione degli individui alle scelte che influiscono sulla loro vita. Il concetto di sviluppo umano, sempre secondo l’UNDP si estende fino a comprendere la sostenibilità del processo di sviluppo, richiedendo il rispetto dei sistemi naturali da cui dipendono tutte le forme di vita e tenendo conto dell’equità intra e intergenerazionale e, così facendo, commisura il processo di sviluppo alle capacità di carico della natura dando la massima priorità alla rigenerazione dell’ambiente in modo da tutelare le capacità delle generazioni future. Secondo l’UNDP la sostenibilità assume tre elementi come riferimento: le capacità, l’ambiente e le istituzioni.

    Le critiche rivolte all’ISU
    Le principali critiche che sono state mosse all’ISU possono essere riassunte come segue:

    a) critiche relative al concetto di sviluppo umano
    Rao (1991) si chiede se lo “sviluppo umano” possa portare ad una società più umana, se più educazione, una maggiore longevità e un potere d’acquisto al di sopra della linea di povertà possano contribuire all’evoluzione umana e conclude che non e possibile stabilire un legame tra il progresso dell’uno e quello dell’altra; Hopkins ricorda che, come e stato già osservato durante il dibattito sui BASIC NEEDS negli anni ‘70, paradossalmente alla situazione di una persona che pur trovandosi in prigione vivesse a lungo e avesse accesso ad una biblioteca corrisponderebbe comunque un punteggio alto in termini di ISU.

    b) critiche alla costruzione dell’indice
    Rao rileva che in assenza di ponderazioni alle diverse componenti viene dato uguale peso, il che può essere discutibile, come d’altronde qualsiasi alternativa proposta. Il metodo prescelto per calcolare l’insufficienza del reddito, in particolare il ricorso al logaritmo del PIL procapite, adottato per riflettere l’utilità decrescente del reddito ai fini del potenziamento delle capacita umane, viene criticato in quanto: un alto livello di reddito, anche se non è strettamente necessario per assicurare un livello di vita decente, certo non lo riduce; le diverse componenti dell’ISU entrano indipendentemente nella costruzione dell’indice e quindi qualsiasi relazione tra loro (ad es. influenza del livello di reddito sull’istruzione o la speranza di vita) non dovrebbero influenzare il calcolo dell’ISU (1). Inoltre il livello assoluto di reddito è di più immediata comprensione e in ogni modo si è già assunto come obiettivo di riferimento non il livello massimo bensì un livello minimo di reddito. McGillivray osserva che vi è una correlazione positiva e significativa tra l’HDI e le sue componenti e considera l’indice nel suo complesso inutile, in quanto solo in pochi casi aggiunge informazioni a quelle che si potrebbero ottenere utilizzando semplicemente il PIL procapite. Egli osserva tra l’altro che, dato che l’ISU assume come riferimento livelli minimi e livelli desiderati relativamente alle diverse componenti, la posizione di un paese rispetto agli altri potrebbe cambiare in termini relativi senza che si siano verificati mutamenti reali. Hopkins indica una debolezza, condivisa peraltro dall’ISU con altri indici dello stesso tipo, nel fatto che non vi è alcuna base logica che autorizzi a sommare tra loro la speranza di vita e il tasso di alfabetizzazione (per usare i termini dell’autore “è come sommare arance e banane”, solo che al contrario di quanto avviene per lo sviluppo umano, l’utilità dei diversi frutti può essere espressa in calorie).

    Risposte alle critiche
    Alla critica generale di aver trascurato aspetti come la libertà l’UNDP replicava nel 1993 di aver avviato già nel 1991 la costruzione di un indice delle libertà, riscontrando però due problemi: la scarsità di dati e la notevole instabilità politica di molti paesi, che può influenzare notevolmente un simile indice anche in tempi molto brevi. Per quanto riguarda la longevità l’UNDP difende la scelta della speranza di vita alla nascita in quanto altri indicatori, come 1a mortalità infantile, la speranza di vita ad un anno di età o la mortalità al di sotto dei cinque anni, non sono in grado di rilevare adeguatamente le differenze esistenti tra i diversi paesi industrializzati. Per la stessa ragione, rispetto all’istruzione, oltre al tasso di alfabetizzazione è stata aggiunta la frequenza scolastica media. L’indicatore più discusso è certamente stato quello relativo al reddito. Il ricorso alla formula modificata di Atkinson, che a differenza della trasformazione logaritmica adottata inizialmente prevede diverse elasticità dell’utilità marginale del reddito rispetto al reddito in corrispondenza di livelli superiori o inferiori alla soglia di povertà, viene difeso dall’UNDP in base alla considerazione che “fino a un livello minimo non è appropriato parlare di utilità nel senso di soddisfazione tratta dal reddito o dal consumo, è solo dopo un certo livello, quando la sopravvivenza è assicurata che il reddito comincia ad avere utilità ” (UNDP 1993, Technical Notes, p.107). Rispetto all’attribuzione di uguale peso alle diverse componenti, l’UNDP osserva che non bisogna farsi trarre in inganno poiché un aumento di un’unità in una delle componenti incide diversamente sul valore dell’indice complessivo rispetto alle altre. Ciò è dovuto al fatto che ogni variabile è rapportata ad un campo di variazione che misura la distanza dai valori massimo e minimo osservati o fissati: una variazione di un’unità ha un’incidenza sull’ISU pari a 1/108 nel caso della speranza di vita, a 1/365 nel caso del tasso di alfabetizzazione, a 1/108 nel caso della scolarizzazione e a 1/15.222 nel caso del reddito (UNDP 1993, Technical Notes, p.110)

    A questo punto è però necessario prendere in considerazione la sostenibilità per valutare se e in che misura l’ISU ne tenga conto, come indicato nei rapporti dell’UNDP.

    L’ISU e la sostenibilità

    II concetto di sostenibilità
    Quella dello “sviluppo sostenibile” è divenuta una formula comune nella letteratura sullo sviluppo e nei documenti delle istituzioni internazionali, che viene enunciata molto più spesso di quanto non venga definita. Essa appare tanto suggestiva quanto indefinita, a causa del fatto che all’ambiguità del concetto di sviluppo si aggiunge quella propria del concetto di sostenibilità. In astratto quest’ultimo termine dovrebbe designare la possibilità di mantenere nel tempo una situazione di equilibrio di fronte a un mutamento di alcune condizioni che la caratterizzano e che possono manifestarsi sotto forma di “shock” o di “stress”. Nel concetto di sostenibilità è implicito il riconoscimento dell’esistenza di un limite: il suo campo di applicazione originario era quello della gestione delle risorse forestali e in quest’ambito si trattava di individuare in una determinata area la massima quantità di alberi che le leggi biologiche dell’ecosistema consentivano di sottrarre senza che l’esistenza stessa dell’ecosistema, e quindi la disponibilità delle risorse, venisse messa in pericolo. In termini economici si trattava di individuare il vincolo (ecologico) rispetto al quale massimizzare la produzione. Con la migrazione di questo concetto verso il campo delle scienze economiche e sociali, di sostenibilità non si parla più solo in riferimento alle risorse naturali o più in generale alle condizioni ecologiche, ma anche a quelle economiche, culturali e sociali.

    Approcci e politiche differenti
    Nell’espressione “sviluppo sostenibile” l’accostamento di due termini dai contorni semantici poco definiti ha favorito il moltiplicarsi delle interpretazioni. Queste variano a seconda dei parametri di riferimento che possono essere sociali, economici o ecologici. In realtà è difficile operare una rigida separazione tra questi piani e qui viene seguita solo per comodità di esposizione. Le organizzazioni internazionali tendono inoltre ad accogliere una interpretazione “globale” dello sviluppo sostenibile, che tenga conto cioè di tutti e tre i livelli. Ad esempio, il Quinto programma a favore dell’ambiente del 1993 dell’Unione europea indicava come “sostenibile” ”… una politica e una strategia per perseguire uno sviluppo economico e sociale che non rechi danno all’ambiente e alle risorse naturali dalle quali dipendono il proseguimento dell’attività umana e lo sviluppo futuro”, e individuava tra le caratteristiche di uno sviluppo sostenibile la necessità di prevedere un ciclo di produzione tale da incoraggiare la riutilizzazione e il riciclaggio e da evitare l’esaurimento delle risorse naturali, di razionalizzare la produzione e il consumo di energia, di modificare i modelli di consumo e di comportamento dei cittadini. Inoltre il documento faceva propria la relazione Brundtland per quanto riguarda le tre caratteristiche che deve avere uno sviluppo sostenibile: garantire la qualità della vita, garantire un accesso continuo alle risorse, evitare danni permanenti all’ambiente. La scomposizione del concetto resta però valida ai fini di una chiarificazione.

    Per quanto riguarda la sostenibilità dal punto di vista sociale, in questa accezione di sviluppo sostenibile il punto di riferimento può essere rappresentato da uno strato o classe sociale o da una comunità di cui si vogliono preservare l’esistenza o i valori, o addirittura dalla società nel suo insieme. In assenza di definizioni esaurienti si oscilla tra un generico concetto di accettabilità dal punto di vista sociale e una visione statica delle istituzioni sociali che dovrebbero essere conservate a priori. In campo economico invece per la sostenibilità si possono assumere come riferimento, ad esempio, le imprese di un determinato settore o paese. In questo caso lo sviluppo sostenibile viene inteso come l’avvio e il mantenimento della crescita economica: siamo alla visione tradizionale che considera l’ambiente come fonte di risorse naturali e come ricettore dei rifiuti derivanti dalle attività produttive. In quest’ambito si possono distinguere due posizioni: la prima nega validità scientifica sia alla tesi dell’esistenza di limiti alla disponibilità di risorse naturali e quindi alle possibilità di proseguire indefinitamente la crescita economica, sia alla tesi dell’esistenza di problemi ambientali su scala planetaria (cambiamento del clima, effetto serra); la seconda accetta quest’ultima tesi, ma non la prima. L’idea di limite, propria del concetto di sostenibilità, viene negata o recepita come un elemento frenante, eliminabile attraverso lo sviluppo di tecnologie appropriate e l’adozione di politiche economiche che favoriscano la liberalizzazione degli scambi commerciali e l’attribuzione alle risorse naturali di prezzi che ne riflettano il valore di mercato e ne consentano in qualche modo la privatizzazione. (vedi anche: Pearce e altri, “Debt and Environment”, Scientific American , June 1995, pagg.28-32)

    La crescita economica è qui l’elemento privilegiato, non più solo come obiettivo in sé ma anche come strumento grazie al quale sarebbe possibile attuare, in un secondo momento, una politica di tutela dell’ambiente e delle risorse naturali. Sono infatti i paesi industrializzati, si sostiene, che, dopo aver sfruttato a piacimento le risorse naturali proprie e altrui (tra le quali va compresa anche la capacità di ricezione dei rifiuti) perseguono politiche ambientali di cui possono permettersi il costo. A sostegno di questo punto di vista si invocano anche aspetti distributivi: con la politica ambientale, in particolare con quella volta a contenere le emissioni di CO2 per contrastare l’effetto serra e con quella volta a contenere il ricorso alle risorse naturali, i paesi ricchi impediscono a quelli in via di sviluppo di risolvere il loro problema fondamentale, che e quello della povertà. I problemi ambientali dei PVS non sono gli stessi dei paesi industrializzati e possono essere risolti solo con la crescita economica, come la storia dei paesi industrializzati ha dimostrato: invocando la “forte correlazione tra reddito e grado di adozione di misure a tutela dell’ambiente…” si conclude che ”…nel lungo periodo, diventare ricchi e il modo più sicuro di ottenere miglioramenti ambientali.” (Beckerman W. 1992, p.491). Dopo aver ricordato la reciproca influenza tra fattori di degrado ambientale e povertà, El- Ashry, presidente del Global Environmental Facility della Banca Mondiale, conclude: “La riduzione della povertà spezza questo circolo vizioso aumentando la capacità di investire in attività sostenibili dal punto di vista ambientale da parte della popolazione e riducendo la propensione di quest’ultima ad adottare modelli di comportamento distruttivi per l’ambiente” (El-Ashry, The Washington Quarterly, Spring 1993, p.84).

    Alcuni paesi industrializzati, come gli Stati Uniti, e istituzioni internazionali, come la Banca Mondiale, sono favorevoli a una progressiva e completa liberalizzazione del commercio, posizione che tradizionalmente non incontra il favore di molti paesi in via di sviluppo e solleva obiezioni da parte degli ambientalisti. I primi sostengono che nel lungo periodo tutti beneficeranno dell’eliminazione delle barriere commerciali (siano esse costituite da dazi, tariffe contingenti alle importazioni, sussidi agli agricoltori locali o prezzi al consumo amministrati) poiché, affermano, la chiave per assicurare un uso sostenibile delle risorse naturali consiste nell’attribuire ad esse prezzi non distorti che ne riflettano realisticamente la scarsità. Piuttosto che ricorrere a una difficile operazione di attribuzione di diritti di proprietà esclusivi per i beni ambientali Lutz e Young suggeriscono l’applicazione del principio “chi inquina paga” a tutte le forme di sfruttamento delle risorse naturali anche nei PVS, ritenendo non decisive le critiche di chi giudica iniqua tale applicazione in paesi in cui la maggior parte dei coltivatori vive in condizioni di povertà in quanto “è probabile che un’ampia quota degli input che danno luogo ad esternalità vengano utilizzati nelle aziende agricole di maggiori dimensioni orientate alla produzione per l’esportazione” (Lutz E., Young M., 1992, p.244).

    Critiche all’impostazione tradizionale
    Questo tipo di ragionamento si basa fondamentalmente sulle seguenti ipotesi: esistenza di una relazione causa-effetto tra povertà e degrado ambientale, per cui riducendo la prima si ridurrebbe anche il secondo; efficacia della crescita economica ai fini della rimozione della povertà; non contraddittorietà tra gli obiettivi della crescita economica e quelli della salvaguardia ambientale. Tuttavia la povertà non può essere considerata come l’unica causa del degrado ambientale: questa tesi non vale per i paesi industrializzati e risulta riduttiva per quelli in via di sviluppo. Con un ragionamento simile ci si dimentica della complessità delle ragioni che stanno alla base dello sviluppo mancato o insufficiente di tali paesi, considerando la situazione endogena e trascurando i fattori storici connessi con l’ordine politico ed economico internazionale. Inoltre affermare che la crescita economica sia l’unico mezzo per assicurare uno sviluppo sostenibile significa, come rileva Lelé, ignorare praticamente tutto quanto è stato detto negli ultimi decenni sulla non coincidenza della crescita economica con lo sviluppo, un risultato alquanto bizzarro per una teoria che pretende di essere innovatrice.

    La completa liberalizzazione del commercio è una delle vie spesso raccomandate ai PVS per assicurare la crescita economica ma, con particolare riferimento alla situazione di molti paesi africani dell’area sub-sahariana, può essere vista anche come un processo che, mettendo le risorse agricole di paesi fortemente dipendenti dalle esportazioni di un ristretto paniere di prodotti primari a disposizione dei mercati delle esportazioni, crea condizioni che spingono gli agricoltori locali a esercitare pressioni eccessive sulle terre marginali (Cheru 1992). La situazione descritta da Cheru potrebbe essere sintetizzata graficamente dallo schema riportato nella Figura 1. La scarsa redditività delle esportazioni agricole, dovuta tra l’altro ai bassi prezzi fissati dai mercati internazionali, insieme alle politiche governative, intese a privilegiare il settore agricolo che produce per l’esportazione rispetto a quello che produce per il consumo interno e a mantenere bassi i prezzi al consumo, concorrono a determinare effetti ciclici e cumulativi negativi in diversi campi. Come la produttività del settore agricolo tradizionale e la redditività agricola in generale, il deficit alimentare, l’indebitamento e il degrado ambientale, aggravato sia dalle pratiche estensive che da quelle intensive. Da un lato gli incrementi di produttività concorrono a ridurre i prezzi delle merci agricole, dall’altro, l’impoverimento spinge i produttori a concentrarsi sulle necessita più impellenti, trascurando le attività di manutenzione e salvaguardia dell’ecosistema produttivo.

    Anche sulla validità del ricorso al principio “chi inquina paga” esistono punti di vista discordanti. Per quanto riguarda gli aspetti pratici legati alla sua applicazione, le questioni che vengono sollevate riguardano la determinazione del costo dell’inquinamento (in particolare se alla stessa azione inquinante vada attribuito sempre lo stesso costo, o se questo debba variare a seconda della diversa capacita ricettiva di differenti regioni) e di un livello “accettabile” di inquinamento. Più in generale, si rileva che il principio “chi inquina paga” era stato promosso dall’OCSE all’inizio degli anni ‘70 principalmente per fronteggiare problemi ambientali su scala regionale facilmente identificabili, mentre oggi hanno assunto rilevanza assai maggiore i problemi legati all’inquinamento transfrontaliero a livello internazionale e mondiale con un conseguente aumento di incertezza che investe tanto le cause quanto le reali dimensioni dei danni ambientali e le azioni volte a porvi rimedio. “Non si possono risolvere i problemi odierni con facili ricette del tipo ‘chi inquina paga’…Ciò che occorre è piuttosto un intenso esercizio di cooperazione a livello mondiale” (Saunders J.O., 1992, p.729).

    Sostenibilità ecologica e generazioni future
    Rispetto alla sostenibilità ecologica, Lelé rileva (Lelé 1993, p.609) che con questo concetto ci si riferisce all’esistenza di condizioni ecologiche che consentano il mantenimento della vita umana ad un dato livello di benessere durante il succedersi delle generazioni. In questo caso si verifica un duplice cambiamento: da un lato si esce dall’ottica antropocentrica riconoscendo pienamente l’esistenza di un limite fisico alle attività umane, di un ordine esterno superiore; dall’altro l’orizzonte temporale che fa da sfondo al giudizio sulle azioni presenti si estende indefinitamente fino a comprendere “le generazioni future”.

    Anche i riferimenti spaziali della sostenibilità ecologica sono estremamente variabili, in quanto essa può applicarsi, ad esempio, ad un ecosistema, ad un sistema agricolo o all’intero pianeta. Questa impostazione solleva inevitabilmente problemi non indifferenti. In primo luogo, infatti, lo stato delle conoscenze potrebbe risultare, come spesso accade, insufficiente a determinare le condizioni di sostenibilità ecologica, che sono influenzate da molteplici fattori fisici; in secondo luogo, anche ove lo stato delle conoscenze fosse adeguato, tali condizioni non potrebbero essere stabilite una volta per sempre, dato il carattere dinamico dei fattori interessati. Inoltre, restano aperte questioni come definire l’orizzonte temporale di cui tenere conto e stabilire se e come scontare le future conseguenze negative (certe e probabili) delle azioni attuali. Infine non è chiaro su quale base si potrebbero desumere le preferenze delle generazioni future, mentre alcuni mettono anche in forse l’utilità o la necessità di tenerne conto. Della necessità di tenere conto delle generazioni future, sul piano etico, sono state date diverse giustificazioni: alcuni prediligono la ricerca di un fondamento razionale ispirandosi all’utilitarismo o al contrattualismo (Rawls), mentre altri (per es. Passmore), dopo aver rilevato l’imperfezione logica delle diverse proposte “razionali”, optano per una soluzione che prescinde da un “obbligo morale verso i posteri” e fonda la necessità di tenere conto delle generazioni future sulla base “dell’amore” che nutriamo verso i nostri discendenti e sulla presunzione dell’amore che questi a loro volta avranno per i loro (2).

    Si noti che “se” e “come” tenere conto delle generazioni future sono due questioni diverse e che la proposta di Passmore non offre alcuna giustificazione all’ipotesi secondo cui si dovrebbe tramandare ai posteri la stessa quantità di capitale (naturale e non solo) di cui disponiamo attualmente. Oltre alla difficoltà di misurare realisticamente questa quantità si porrebbe anche la questione di un eventuale indennizzo e in particolare se il lascito in termini tecnologici, oppure di ricchezza o di patrimonio artistico e culturale, possa bilanciare la riduzione del capitale naturale. La cui quantità necessaria è, tra l’altro, anche funzione della popolazione. Di conseguenza un giudizio sulla quantità ottimale dell’uno comporta anche un giudizio sulla quantità ottimale dell’altra.

    L’ISU riflette lo sviluppo sostenibile?
    Da quanto precede dovrebbe apparire chiaro che la definizione dello sviluppo sostenibile è un processo non facile né definitivo e tuttavia necessario se si vuole rendere il concetto operativo. In particolare occorre esplicitare i valori che determinano il giudizio su cosa sia sostenibile o meno: a seconda del sistema etico che si assume a riferimento il risultato può infatti essere differente e comportare risposte diverse rispetto alle politiche e agli strumenti con cui assicurare la sostenibilita. Un esempio e quello offerto da Cicia (Cicia 1993) che confronta l’approccio utilitarista e quello ambientalista alla sostenibilità in agricoltura ed evidenzia come da premesse etiche differenti discendano diverse soluzioni, anche nei casi in cui una situazione risulti non sostenibile in base ad entrambi gli approcci. Nell’esempio in questione si tratta dell’impiego di tecniche di produzione agrochimiche che, provocando un inquinamento superiore rispetto al livello sostenibile, impongono, nell’ottica utilitarista, una correzione fiscale e l’internalizzazione delle esternalità inter e intragenerazionali, mentre in quella ambientalista suggeriscono l’abbandono delle sostanze nocive, poiché non e ammissibile in questo caso effettuare un saldo tra i benefici e i danni subiti da individui diversi (3)

    Se si prende in considerazione la sostenibilità ecologica è difficile individuare nell’ISU una componente che ne tenga conto. Naturalmente non si deve dimenticare che l’ISU e un indice relativo e non assoluto che intende misurare i miglioramenti conseguiti nei singoli paesi (o in aggregati di paesi) dal punto di vista delle persone, intese come fine e non come risorsa e quindi non in termini di capitale umano, e in particolare come tali miglioramenti si traducono in possibilità di un migliore livello di vita. Considerando che i principali problemi ambientali a livello mondiale vengono individuati nel riscaldamento planetario e nell’acidificazione delle foreste provocati dall’inquinamento atmosferico, nell’inquinamento ed esaurimento delle risorse idriche, nella perdita di diversità biologica legata alla riduzione e alla distruzione degli habitat, nella eccessiva produzione di rifiuti, nel degrado dell’ambiente urbano e nell’erosione dei suoli, appare evidente che la componente relativa all’aspettativa di vita riflette solo in parte e in maniera molto indiretta alcuni di questi aspetti. Per esempio, una riduzione dell’inquinamento idrico e atmosferico può significare naturalmente una maggiore speranza di vita grazie a una minore incidenza delle malattie connesse con questi fenomeni, mentre modalità di produzione agricola meno dannose per l’ambiente possono assicurare con la stabilità una maggiore sicurezza alimentare a medio-lungo termine (ma probabilmente comportano una riduzione della produzione nell’immediato) e una riduzione degli incidenti legati alla produzione, al trasporto e all’uso di sostanze pericolose come pesticidi e fertilizzanti.

    Tra i dati relativi ad aspetti strettamente connessi con la sostenibilità ambientale e disponibili per quasi tutti i paesi (World Development 1992) troviamo:
    1) il consumo di fertilizzanti (100 g/ha SAU);
    2) la superficie dell’area boschiva (kmq);
    3) deforestazione annua (kmq);
    4) aree protette in kmq e in percentuale;
    5) consumo idrico procapite (km3 e percentuale delle risorse disponibili) ripartito per uso (domestico o agricolo-industriale).

    Tenere adeguatamente conto di questi indicatori potrebbe aggiungere una dimensione significativa in termini di sostenibilità ambientale all’ISU. In particolare, la scomparsa di habitat e la riduzione della diversità biologica sono in parte certamente conseguenza della deforestazione e della distruzione delle zone umide. L’indicatore “superficie annua disboscata” può quindi fornire in proposito informazioni indirette e parziali ma pur sempre utili. Per quanto riguarda l’ambiente marino, la scomparsa degli habitat e la riduzione della diversità biologica sono strettamente legate agli scarichi inquinanti e alla pesca, attività svolta sempre più spesso senza rispettare i confini delle acque territoriali dei diversi paesi né alcun criterio di sostenibilità (con l’ampliamento fino a 200 miglia dalla costa previsto dalla Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto marittimo firmata nel 1982, la quasi totalità della pesca rientra ormai nell’ambito delle giurisdizioni nazionali, e questo ha portato anche ad un aumento dei conflitti e delle infrazioni). Ai suddetti indicatori si potrebbero inoltre aggiungere, qualora disponibili, quelli relativi all’erosione del suolo e alle emissioni dei principali gas ad effetto serra (SOx; NOx; CO; CO2) generate dalle attività industriali, dal riscaldamento domestico e dai mezzi di trasporto. Resta da valutare l’eventuale costruzione di un indice basato su questi indicatori che potrebbe affiancare l’ISU o essere utilizzato per effettuarne una “ponderazione ambientale”.

    Conclusioni

    Nelle pagine che precedono si è cercato di tracciare un quadro sintetico del dibattito sullo sviluppo sostenibile, sottolineando come questo erediti un carattere indefinito dalla varietà di approcci e interpretazioni relativi ai concetti di sviluppo e di sostenibilità. Dopo aver individuato l’approccio di Sen allo sviluppo umano e agli indici appropriati ad una sua rappresentazione e la sostenibilità ambientale come punti di riferimento, si è preso in esame l’ISU allo scopo di valutare se le sue componenti tengano conto anche della sostenibilità ambientale. L’ISU e un indice che si inquadra nell’ambito della teoria dello sviluppo di Sen, e si pone come superamento dell’antitesi tra approcci oggettivi e soggettivi, con l’ambizione di essere uno strumento sintetico di facile consultazione. Si tratta di un indice in continua evoluzione, di cui sono state elaborate anche versioni ponderate per tenere conto della realtà regionali o di gruppi specifici della popolazione. Se da un lato le sue componenti riflettono in maniera diretta o indiretta fenomeni importanti che determinano le possibilità di sviluppo degli individui, esse non sembrano tuttavia poter riflettere adeguatamente il ruolo delle componenti ambientali sullo sviluppo umano, escludendo cosi dall’indice gli elementi caratteristici di uno sviluppo sostenibile, cui peraltro si fa riferimento nei documenti dell’UNDP.

    Tener conto degli aspetti relativi alla sostenibilità ambientale non sarebbe in contrasto con l’impostazione dell’ISU, ma potrebbe comportare una sua complicazione. Tuttavia, tenendo conto del fatto che l’ISU non si spinge al livello dei “funzionamenti” ma si limita a quello delle “capacita”, un’eventuale correzione “ambientale” dell’indice potrebbe affiancare la versione classica, come già avviene quando si vogliono evidenziare gli aspetti relativi a regioni o a gruppi di popolazione determinati, senza diminuirne l’intuitività, soprattutto tenendo presente la necessità di utilizzare dati disponibili e comparabili a livello internazionale.

    Note

    1) Rao ritiene tuttavia che il logaritmo del PIL procapite rifletta meglio del PIL procapite in valore assoluto lo sviluppo umano nel caso venga utilizzato come unico indicatore.

    2) Si veda su questa problematica la rassegna di J.Pasek (1992)

    3) In base al “principio del danno” e alla regola suggerita da Aiken per l’ordinamento di danni diversi Cicia sintetizza come segue le norme per l’aggregazione di danni che colpiscono più individui. Uno stato X è preferibile ad uno stato Y se: il numero di persone colpite dallo stesso danno è inferiore in X; se in Y almeno un individuo subisce un danno più grave di quello che un qualsiasi numero di persone subirebbe in X.

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