Le anime dell’artificio

Una teoria di solito è il risultato di un tentativo di innovazione conoscitiva che può comportare sia una ricombinazione su basi nuove di concetti già esistenti, sia l’introduzione di concetti del tutto nuovi.Nel caso della teoria sul concetto di artificiale ci si trova più vicini alla seconda situazione che non alla prima. In effetti il concetto di artificiale, il cui uso peculiare risale al Medioevo, è impiegato tradizionalmente in un’accezione che corrisponde solo in parte a quella che si intende proporre in questo articolo.

Generalmente, con il termine “artificiale” ci si riferisce a qualsiasi cosa sia prodotta dall’essere umano, in opposizione alle cose naturali, prodotte dalla natura. Nel corso del dibattito sull’intelligenza artificiale – in particolare sulla sua fattibilità – sostenitori e detrattori hanno polarizzato tutta l’attenzione critica sul primo concetto, l’intelligenza, ignorando il secondo. Il perno centrale del dibattito era costituito quasi esclusivamente dal carattere assai ambiguo e poco noto dell’intelligenza, mentre la definizione dell’”artificiale” veniva data per scontata.

Ma qual è il denominatore comune della perspectiva artificialis di Leon Battista Alberti e dell’intelligenza artificiale, dell’arcobaleno artificiale di Bacone e dei paradisi artificiali di Baudelaire, dell’olfatto artificiale ideato dalla Sony Corporation e della vita artificiale di Langton? In definitiva, quando possiamo sostenere legittimamente che qualcosa è artificiale?

Le due facce della tecnologia

Se, come Simon, Monod, o più recentemente Karlqvist e altri studiosi – che hanno affrontato il problema in altri contesti – per artificiale intendiamo tutto ciò che, essendo stato costruito dall’essere umano, si “stacca” dallo sfondo naturale (ad esempio per il suo aspetto formale, quello stesso che abbiamo invano cercato su Marte, per intenderci), allora non serve cercare nessun comune denominatore nel concetto di artificiale per distinguerlo da ciò che non lo è. Artificiale, a ben vedere, sarà solo un sinonimo di “tecnologico”.

Se, al contrario, avvertiamo l’esigenza di una definizione che renda conto della semantica attribuita nel corso dei secoli a questo particolare modo d’essere delle cose fatte dall’essere umano, allora il concetto di artificiale ci svela alcune proprietà in certa misura insospettate.

Per esempio, sembra ragionevole sostenere che qualcosa è artificiale sempre e solo rispetto a qualcos’altro che non lo è. L’artificiale, insomma, almeno nei suoi stadi iniziali di sviluppo, non vive del tutto di vita propria. Esso non possiede uno “statuto” indipendente come hanno gli oggetti naturali o quelli tecnologici propriamente detti che il lessico comune non battezza come artificiali: dopotutto, nessuno parlerebbe mai di trapani o di televisori artificiali. Sebbene la teoria qui proposta possa essere valida anche per fenomenologie molto lontane dal mondo tecnologico hard – come alcuni comportamenti culturali della specie umana – si può affermare che, mentre tutti i dispositivi in definitiva sono macchine, non tutte le macchine sono da concepirsi come dispositivi artificiali.

Il denominatore comune dell’artificiale è l’oggetto di riferimento, che chiameremo “esemplare”, al quale esso si ispira, che stimola l’ideazione del progettista e senza il quale perderebbe significato. Un esemplare può appartenere alla realtà esterna quanto a quella interna alla mente del progettista; esso può addirittura essere il risultato di una costruzione mentale collettiva, come il demonio nella rappresentazione, dunque nella riproduzione, artistica medievale. Potremo allora chiamare tecnologia convenzionale quella che, sulla base della conoscenza scientifica del mondo naturale ed anche delle conoscenze tecnologiche in quanto tali, produce macchine originarie, senza alcun riferimento né finalità imitative nei confronti della natura ma, semmai, di dominio o controllo di essa.

Potremo parlare, invece, di “tecnologia dell’artificiale” nei casi in cui la finalità imitativa appare evidente o addirittura dichiarata e viene perseguita dunque con l’esplicita intenzione di riprodurre qualcosa di esistente – spesso di origine naturale – per mezzo di altri materiali e procedure. Dovremo quindi definire in modo diverso quelle attività che mirano alla riproduzione di entità naturali attraverso la pura combinazione o ricombinazione degli stessi elementi che le costituiscono, come certe sintesi di composti naturali, i trapianti o la fecondazione impropriamente detta artificiale, nella quale solo il processo di presentazione reciproca delle entità biologiche implica qualcosa di diverso da ciò che accade in natura.

Ciò che rimane chiaro è che, nel quadro proposto, le relazioni fra naturale e l’artificiale propriamente detto non sono più opposizione bensì di parziale sovrapposizione. Recentemente, il professor Qvortrup, dell’Università di Odense, ha fornito un contributo critico in questa direzione, sostenendo che l’artificiale si pone in essere quando qualcosa, per esempio un sistema, non possieda in sé capacità autopoietiche e che, dunque, quello che Ashby avrebbe definito il suo elemento di condizionalità risieda all’esterno, per esempio nella intenzionalità del progettista. Il contributo di Qvortrup pone correttamente la condizione necessaria dell’artificiale ma non quella sufficiente, che è costituita, appunto, dal fatto che il sistema risultante deve riferirsi a qualche esemplare diverso da sé, già esistente.

Genesi dell’artificiale

Un avvicinamento genetico all’artificiale non può dunque che partire da qualche forma di intenzionalità riproduttiva o, in senso generale, imitativa, opposta ad altre, inventive o creative, nella stessa accezione introdotta un secolo fa dal sociologo Gabriel Tarde nel suo classico studio su Les lois de l’imitation. Intesa come ricerca teorico-sperimentale, l’investigazione sull’artificiale porta immediatamente ad un problema epistemologico: se per riprodurre un esemplare l’artificialista deve innanzitutto osservarlo, allora egli dovrà fare i conti con l’insieme delle condizioni entro le quali avviene il processo osservativo.

Si tratta, ovviamente, di un problema antichissimo, che soprattutto nel nostro secolo ha visto lo sviluppo di numerose tesi epistemologiche anche sulla scia di alcune nuove problematiche e nuove proposte risolutive derivanti dalla fisica, dalla psicologia, dalla teoria dei sistemi.

Agli effetti della nostra teoria, e tenendo prudentemente conto del disincanto post-positivistico che ormai permea la nostra cultura, sarà però sufficiente proporre l’idea che l’individuo, e dunque anche l’artificialista, compie osservazioni selezionando, sempre e inevitabilmente, un solo livello di osservazione per unità di tempo fra gli infiniti possibili. Ciò che viene osservato può essere concepito come “oggettivo” – quando, in altri termini, sia ragionevole escludere che esso sia il risultato di una costruzione mentale – ma comunque “relativo” al livello selezionato che agisce come sistema di riferimento. Non osserviamo, come spesso si dice, una “parte della realtà”: noi osserviamo sempre “la” realtà, ma sempre e solo relativamente ad un certo livello di osservazione.

L’artificialità assume dunque il proprio esemplare isolandolo, spesso sradicandolo, dal contesto sotto l’azione vincolante del livello di osservazione che avrà selezionato o generato. Tutto questo vale sia che l’esemplare sia costituito da una struttura – si pensi ad uno scheletro di plastica per scopi didattici – oppure di un processo – si pensi alla progettazione di macchine per la respirazione artificiale.

L’esemplare che l’artificiale assume come obiettivo riproduttivo non solo non consiste mai nella totalità ontologica (ma in una fenomenologica dipendente dal livello di osservazione esplicitamente dichiarato o deducibile implicitamente dal suo lavoro): esso viene anche definito sulla base di prestazioni, che diremo prestazioni essenziali, che vengono ritenute, appunto, capaci di individuare, di connotare senza ambiguità l’esemplare.

A questo punto potremo definire l’artificiale come la riproduzione della prestazione essenziale di un esemplare, ad un certo livello di osservazione, per mezzo di materiali e procedure diversi.

Così, la riproduzione artificiale di un fiore eleggerà come prestazione essenziale, ad un livello di osservazione macroscopico, la forma, il colore oppure il profumo o l’aspetto strutturale, ma non tutti questi elementi assieme: poiché, come è intuibile, la loro sintesi richiederebbe la conoscenza delle relazioni intime che intercorrono fra di essi. Al di là dei gadgets che – come alcune classi di giocattoli zoomorfi o antropomorfi, o certo rifacimenti industriali – possono riprodurre varie prestazioni simultanee su un mero piano allusivo e dichiaratamente “finto”, un artificiale genuinamente tale è sempre in grado di riprodurre una sola prestazione, la cui azione prevale nettamente sulle altre, introducendo anche per questa via ulteriore fattore di trasfigurazione dell’esemplare.

L’attribuzione di prestazioni essenziali agli esemplari può essere condotta esplicitamente – si pensi ad un progetto di riproduzione della visione secondo una precisa e dichiarata teoria della medesima – o implicitamente ricostruibile dall’analisi del prodotto finale – si pensi ai molti programmi di intelligenza artificiale che, con lo scopo generico di riprodurre l’intelligenza umana, propongono concretamente prestazioni particolari di tipo inferenziale oppure associativo, computazionale oppure di pattern matching, senza poter ambire alla loro sintesi.

In definitiva, il livello di osservazione costringe l’artificiale a due momenti riduttivi o selettivi – dell’esemplare e della prestazione essenziale – inevitabili e costituiti, più che solo influenzati, dalla propria natura fisica, dalla propria personalità, dalla cultura cui appartiene o anche dalle prestazioni preferite dal mercato. La cultura stessa potrebbe essere definita come il luogo di contrattazione e diffusione, dominio e poi crisi di livelli di osservazione che vengono proposti, prevalgono e poi scompaiono, venendo sostituiti da altri.

Nella sua fase realizzativa, poi, l’artificiale non può che contare sulla tecnologia convenzionale poiché la tecnologia dell’artificiale non consiste in un insieme di conoscenze, tecniche e strumenti intrinsecamente capaci di generare artificiale: essa, in effetti, è solo il risultato dell’orientamento delle conoscenze, tecniche e strumenti della tecnologia convenzionale verso finalità riproduttive.

Il prodotto finale della riproduzione artificiale è dunque il risultato non solo di una selezione percettiva multipla, ma anche dell’impiego di materiali e procedure diversi da quelli che costituiscono l’esemplare, combinati per mezzo della tecnologia convenzionale. Tutto questo, paradossalmente, allontana l’artificiale, quanto più esso si sviluppa, dalla stessa natura da cui aveva preso lo spunto ideativo, conservandone al più qualche traccia dalla quale è pur sempre possibile riconoscere la non convenzionalità e quindi la sua artificialità come qui definita – per esempio un radar OTH rispetto al sottosistema naturale dei pipistrelli, un microscopio elettronico rispetto ad un microscopio ottico o un pianoforte digitale rispetto ad uno acustico.

L’incontro fra l’attitudine artificiale e la creatività può essere illustrata da un modello proposto agli inizi del secolo dall’antropologo Franz Boas, riguardo al lavoro degli artisti primitivi.Come ha sostenuto Boas, nel simbolismo dell’arte primitiva si possono reperire due momenti distinti: quello della rappresentazione (il disegno “significa” aspetti del mondo naturale, come pesci, serpenti, uomini, ecc.) e quello che egli stesso chiama “puramente convenzionale”. Quest’ultimo, d’altra parte, può provenire, secondo Von der Steinen – citato da Boas – proprio dal primo. In altre parole, in un primo stadio il disegno parte dalla natura imitandone qualche aspetto. In questo modo si sviluppano stili stabili. In un secondo stadio, le forme generate in quel modo assumono un valore di riferimento, e il loro ulteriore sviluppo può diventare molto autonomo sulla base di una ricerca innovativa. Così, le forme si allontanano sempre di più dalla diretta influenza della natura e dei suoi esemplari, ponendo in essere modelli culturali di secondo livello, che predispongono maggiormente a nuove evoluzioni creative e astratte. In effetti, ”…il tessitore gioca con la sua propria tecnica, cioè quando, non essendo più soddisfatto di tessere in avanti e indietro, comincia a saltare i fili introducendo ritmi e movimenti più complessi” (Boas, 1927).

Replicazione versus artificiale

Nell’impiego tradizionale, espressioni come duplicazione, copia, riproduzione, replicazione sono spesso adottate come sinonimi o complementi del concetto di artificiale. In questi casi, pur accettandosi implicitamente la componente imitativa dell’artificiale e dunque non solo il suo carattere generico di “qualcosa prodotta dall’azione umana”, il concetto in questione si pone, a nostro parere, in una posizione diametralmente opposta a quella che dovrebbe avere. In effetti, riteniamo che l’artificiale sia ciò che di più diverso si possa immaginare rispetto alla replicazione e non un suo perfezionamento.

Innanzitutto la replicazione dovrebbe essere intesa come riproduzione di un oggetto, naturale o meno, da tutti i livelli possibili di osservazione. Già in tal modo essa si colloca al di fuori del campo di azione e di definizione dell’artificiale che, al contrario, non può che prendere le mosse dalla selezione di un solo livello di osservazione per unità di tempo.

In secondo luogo, perché vi sia replicazione occorre che i materiali e le procedure siano gli stessi che caratterizzano l’oggetto da replicare e, dunque, anche per questa via, la replicazione si pone assai lontano dall’artificiale che, per definizione, deve ricorrere a materiali e procedure diversi da quelli che costituiscono il proprio esemplare.

E’ certamente vero che il tentativo di far progredire qualsiasi prodotto artificiale, dai condotti fisiologici delle anatre artificiali che Vaucanson cercava di migliorare con la gomma appena scoperta fino ai film sottili degli attuali reni artificiali, è perseguito attraverso la ricerca deliberata di materiali sempre più vicini a quelli naturali. E’ certamente vero, dunque, che finalità tacita o implicita dell’artificialista è sempre quella di replicare, o ricreare, il proprio esemplare – (il che pone il concetto di artificiale molto vicino, in un certo senso, a quello di alchimia).Ma è pur vero che ciò è impossibile, quanto meno, per due ragioni: una puramente logica e una teorica.

La ragione logica è costituita dal fatto che deve esistere comunque un limite oltre il quale l’approssimazione di un materiale artificiale a quello naturale non può andare poiché, se così facesse, essi diverrebbero indistinguibili o identici, e allora, il processo riproduttivo verrebbe ridotto al caso di una ricombinazione di elementi naturali. L’artificiale, insomma, è condannato ad oscillare fra natura e tecnologia convenzionale pura e, grazie alle varie eterogeneità genetiche e di sviluppo realizzativo di cui si nutre, esso finisce fra l’altro, come regola generale, per generare “effetti collaterali” ed “eventi improvvisi” di vario interesse, nel bene come nel male.

La ragione teorica è costituita dal fatto che, anche se la difficoltà logica fosse superabile, per la riproduzione corretta di tutti i livelli di osservazione – condizione inevitabile della replicazione – dovremmo pregiudizialmente conoscere le relazioni che, nell’esemplare, intercorrono fra i diversi livelli, cosa che è tutto al di là delle possibilità della scienza.

Questo è un punto assai delicato e complesso: in linea generale siamo tutti inclini a pensare che i livelli di realtà, per quanto infiniti, una volta conosciuti singolarmente siano in qualche modo sommabili o, meglio ancora, sintetizzabili. Tuttavia non vi sono prove che ciò sia possibile o, per meglio dire, che ciò sia possibile senza perdite di ricchezza conoscitiva. Una ricerca genuinamente inter-disciplinare non porta mai al conseguimento di conoscenze che includano tutte le conoscenze generate dalle ricerche disciplinari originarie, ma, semmai, alla costituzione di un terzo livello di osservazione e di conoscenza, con un proprio lessico, propri problemi, proprie teorie. Se la sintesi fosse possibile senza perdite e differenziazioni, allora dovremmo accettare una concezione cumulativa grazie alla quale dovrebbe essere possibile ricostruire post-analiticamente la totalità ontologica di qualsiasi oggetto, cosa già rigettata come improponibile sia dalla scienza che da molte scuole epistemologiche e legittima forse, solo su un piano metafisico.

In che circostanze è dunque possibile replicare? Innanzitutto la replicazione, in taluni casi specifici, come la riproduzione delle specie, è possibile per via naturale, poiché attraverso di essa, senza alcun intervento analitico, vengono riprodotti tutti i livelli possibili di osservazione.

In secondo luogo è possibile replicare oggetti che non solo posseggano un numero potenziale di livelli di osservazione finito piuttosto che infinito – rimarrebbe infatti la questione delle relazioni incognite o troppo complesse – ma addirittura ridotto ad uno solo. Questo è il caso degli oggetti costituiti dalla sola informazione, come il software o i testi concepiti al solo livello informazionale, i quali, infatti, possono essere replicati senza alcun problema purché, come è stato osservato da Giuseppe O. Longo dell’Università di Trieste in alcune comunicazioni personali, le energie necessarie per trattare l’informazione – per quanto normalmente trascurabili – non siano critiche e non producano, in altre parole, possibili trasformazioni o degenerazioni qualora subiscano modificazioni rilevanti nel corso della replicazione.

Il caso più interessante, almeno sotto il profilo sociologico, è però quello della lavorazione in serie. Assumendo una versione empirica, clonale, e dunque non logico-formale, del concetto di identità al quale la replicazione si orienta, si può osservare che i prodotti in serie sono replicabili ad libitum, alla sola condizione che il “disegno” del prodotto sia noto in tutti i suoi dettagli o, meglio, in tutti e soli i dettagli progetti e adottati dal primo prodotto della serie. Anche in questa circostanza, a ben vedere, viene evitata l’illusoria strada analitica – conoscere le parti, i livelli e poi ricostruire l’intero – e si ricorre, piuttosto, ad un principio che si potrebbe definire di ereditarietà. In effetti se io sono a conoscenza del tipo di materiale adottato da un certo prodotto (e delle procedure realizzative) non ho alcuna necessità di analizzare i livelli – infiniti – da cui esso è costituito: sarà sufficiente adottarlo e tutti i livelli, entreranno in scena, diciamo così, “automaticamente”.

Anche questo modo di affrontare la questione ha qualche precedente scientifico: per esempio nella concezione di George Gurvitch dei “fatti sociali totali” come entità complesse e complete che sono sempre attive tutte insieme, a dispetto della nostra indagine analitica la quale produce semmai entità artificiali, risultati di selezioni multiple che, generalmente, si allontanano sempre più dalla realtà dell’esemplare generando piuttosto realtà proprie.

Applicazioni nelle scienze umane

Proprio quest’ultima osservazione ci porta direttamente alle scienze umane, nel cui ambito l’artificiale si presenta, ovviamente, secondo modalità diverse da quelle che lo caratterizzano nel mondo tecnologico, ma che seguono la stessa logica e possono dunque essere indagate sulla base della stessa teoria.

Per ragioni di spazio ci limiteremo a pochi cenni. Possiamo innanzitutto sottolineare che la produzione di artificiale può essere concepita come un’attività connaturata all’essere umano: imitare ciò che esiste è, in effetti, un modo geneticamente e culturalmente fondato la cui economia è fuori dubbio. Al contrario, come già anticipato da Tarde, l’invenzione – attraverso l’astrazione, la speculazione e la creatività organizzate attorno a sistemi di regole – è molto più costosa, presenta molti più rischi e ciò spiega perché essa sia assai più rara, sia nel corso della vita degli individui che nella specie.

Nell’ambito dell’imitazione che comprende anche la mimesi volontaria o istintiva, come presso molte specie animali – la generazione di artificiale appare dalle prime battute: l’essere primitivo assume esemplari dall’ambiente cui attribuisce prestazioni essenziali generalmente molto condivise – difendersi dal freddo, raccogliere acqua, ecc. Ma è solo con il raggiungimento di tecnologie convenzionali evolute – attraverso l’astrazione, la speculazione e la creatività – che l’attitudine riproduttiva può decollare pienamente.

Sul piano delle attività culturali, e dunque soft, la comunicazione è probabilmente la più spettacolare esemplificazione di generazione di artificiale.

Dall’emissione di suoni più o meno aggraziati – il cui scopo era presumibilmente connesso alla riproduzione di esemplari e prestazioni essenziali soggettive (ossia provenienti dalla natura interna del soggetto) molto semplici e poco varie – si passa, con l’avvento della lingua e soprattutto della grammatica, della sintassi e dello stile, alla generazione di artificiale nel senso pieno dell’espressione.

Adottando il linguaggio qui introdotto, possiamo definire la comunicazione come un processo mediante il quale un attore A tenta di riprodurre un esemplare che risiede nella propria mente ad un certo livello di osservazione, e al quale attribuisce una certa prestazione essenziale, nella mente di un attore B.

Per farlo, A non può che adottare “materiali e procedure” diversi da quelli attivi nella propria mente: pensiero, elementi mnestici, immagini, sensazioni e sentimenti vengono così affidati o, meglio, trasdotti in qualche linguaggio nella speranza che esso consenta la loro riproduzione.

Anche nella comunicazione, come sappiamo bene dalla vita quotidiana, “effetti collaterali” e “eventi improvvisi” costituiscono un risultato permanente in termini di equivoci, associazioni di idee che modificano il percorso del dialogo, ma anche, e soprattutto, in termini di riduzione dell’esemplare e della prestazione essenziale, che A voleva riprodurre in B, in misure spesso penose o addirittura angoscianti. In effetti, la ricchezza del nostro vocabolario e la complessità delle nostre semantiche, grammatiche, sintassi e stili, sebbene siano il risultato del tentativo di rendere più dettagliata la riproduzione comunicazionale, sembra permettere, oggi, una comunicazione – ossia una “resa in comune” – meno efficiente che non quella possibile ai primitivi che la limitavano verosimilmente a poche classi di messaggi di basso livello ad alta condivisione.

Da qui il continuo ricorso, nella comunicazione evoluta, alla riduzione dei messaggi a nuclei di significati più familiari, più semplici, oppure l’uso di metafore. Così un profumo diviene più “morbido”, il gusto di un vino “rotondo” o un dolore “acuto”, ma anche un discorso diviene “piatto”, una personalità “angolosa” o un’espressione “glaciale”.

Tali espedienti introducono esemplari e prestazioni standardizzati e dunque in varia misura lontani dalla specificità dell’esemplare e della prestazione essenziale soggettiva che si intendeva riprodurre e, nonostante la loro efficacia pragmatica – anche nel senso di Peirce – essi conferiscono alla comunicazione ordinaria una fisionomia simile ad un “rimbalzo” (bounce). Il significato specifico del messaggio, custodito nella mente di A, viene trasdotto in qualcosa di artificiale costituito da elementi linguistici che A ritiene di condividere con B, e poi si deposita e si riproduce nell’ascoltatore B. Tuttavia esso torna anche ad A, il quale ne giudica l’efficacia in quanto a sua volta ascoltatore. In questo senso la comunicazione è talvolta persuasiva ma, sempre, è sicuramente auto-persuasiva.

Dall’impiego delle tecnologie convenzionali, anche soft, emerge la stessa fenomenologia artistica che diviene vero e proprio esercizio auto-referenziale della tecnologia adottata – come il mezzo diviene il messaggio nella famosa tesi di McLuhan – piuttosto che potenziamento della capacità di riproduzione degli esemplari e delle prestazioni essenziali soggettive dell’artista.

Qualsiasi forma d’arte, infatti, trova possibilità d’essere esattamente nel fatto che la tecnologia della comunicazione – orale, scritta, pittorica, ecc. – consente di dar forma e corpo a realtà autonome dal semplice esemplare e dalla semplice prestazione essenziale. Il dolore di alcune liriche di Leopardi, la Pietà di Michelangelo o l’ Inno alla gioia di Beethoven sono prestazioni essenziali di comune esperienza le quali, tuttavia, grazie al sapiente impiego delle tecnologie linguistiche, sculture e musicali divengono qualcosa d’altro. Qualcosa che vive di vita propria e che fa dei sentimenti in questione – esemplari e prestazioni – dei puri spunti ideativi, immediatamente trasfigurati dalla forma che si fa sostanza artistica in quanto tale, con tutto il suo corredo di ambiguità che, invece di generare equivoco e frustrazione come accade spesso nella comunicazione ordinaria, produce gratificazione estetica.

Un’applicazione assai persuasiva in questa direzione è stata fatta da Bertasio dell’Università di Urbino e dal già citato Qvortrup su alcune classi di arte medievale e rinascimentale.

Fra i molti, due casi assai particolari e per nulla conclusi sono certamente costituiti, in questo ambito, dalla musica e dal teatro. Nello studio estetico della prima, come è noto, si oppongono scuole di pensiero che ne sostengono o negano il carattere linguistico e simbolico, il quale costituisce, col suo contenuto rappresentazionale e dunque riproduttivo, una precondizione per poter parlare di significato e di artificiale.

Tuttavia, da Rameau a Couperin, da Vivaldi a Prokoviev la storia della musica è piena di tentativi espliciti di riproduzione di esemplari e prestazioni essenziali “esterni” la cui bellezza, tuttavia, appartiene appieno, coerentemente con quanto abbiamo sopra osservato, alla loro natura musicale e trascende quindi la loro capacità riproduttiva in quanto tale. Accanto a Chopin, che asseriva di non poter concepire una musica che non esprimesse nulla, c’è la nota posizione di Stravinsky secondo cui l’espressione non è mai stata una proprietà importante della musica; accanto alla posizione di Richard Strauss che si rifiutava di credere ad una Musica Astratta, c’è la tesi dello Hanslick che sosteneva drasticamente come la musica non significhi altro che se stessa.

Per il teatro, che meriterebbe una trattazione altrettanto ampia e nel quale, fra parentesi, il concetto di “replica” è quanto mai chiarificatore della differenza fra questo concetto e l’artificiale, basterà ricordare il pensiero di Pirandello, decisamente vicino alle tesi qui sostenute, in particolare quando sottolinea il carattere trasfigurativo della recitazione – la “tecnologia” adottata dal drammaturgo – per cui “avvenuto il passaggio da uno spirito all’altro, le modificazioni sono inevitabili”. Un processo che riguarda non solo la scena ma che torna a riflettersi sulla comunicazione in quanto tale, quando egli afferma: “Quanti scrittori non restano dolorosamente meravigliati nel vedere che cosa l’opera propria sia divenuta attraverso lo spirito di questo o quel lettore, che magari lo felicitano di certi effetti che egli non si era nemmeno sognato di produrre”.

Nella musica elettronica o nella computer music, nella scultura come nelle opere di computer art – strutture di pixel che sembrano istituirsi come isomorfismi rispetto agli esemplari e le prestazioni essenziali soggettive, cioè alle rappresentazioni mentali dell’artista – si potrebbero fare ulteriori, interessanti esemplificazioni tutte convergenti su un punto: l’artificiale, sia nell’ambito strettamente tecnologico che in quello antropologico-culturale, è insieme un’opportunità e una necessità, e presenta ben poche alternative sia per la sopravvivenza che per la comunicazione.

Il suo destino, tuttavia, è legato alla tecnologia convenzionale e, dunque, ne eredita tutto il potere ma anche tutta la capacità di generare qualcosa di nuovo rispetto agli esemplari.

In una recente discussione, il sociologo Banerjee, ricercatore del National Institute di Nuova Delhi, ricordava come la civiltà orientale sia generalmente incline a negare la distanza fra natura e cultura, fra natura e tecnologia, negando, implicitamente, la possibilità di concepire l’artificiale, sebbene vi sia inevitabilmente immersa, almeno, nelle forme che l’artificiale assume nell’antropologia quotidiana.

Si tratta verosimilmente di un fatto spiegabile, come già aveva intuito Max Weber, con la mancata sperimentazione da parte delle culture orientali del razionalismo e dunque delle selezioni multiple. Nel mondo occidentale, al contrario, si tratta di una distanza che, attraverso l’artificiale, è destinata ad aumentare dando luogo a trasformazioni dalla rilevanza proporzionale al contenuto in senso lato tecnologico e astratto che decidiamo di introdurvi.

 

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