Le latitudini della follia

All’improvviso la ragazza comincia a singhiozzare, strappandosi i vestiti di dosso e gridando oscenità. Arriva al punto di ingerire le proprie feci, e poi si precipita fuori casa, correndo nella neve incurante del gelo. Alla fine si accascia per terra, spossata, e pare non ricordare nulla. Ecco una possibile drammatizzazione di un attacco di Pibloqtok, un disturbo psichiatrico che colpisce soprattutto le giovani donne dei paesi artici. E’ solo una tra le più di cento malattie mentali “esotiche” descritte in un libro uscito di recente per i tipi della Utet. “Psichiatria oltre frontiera” è un manifesto dell’etno-psichiatria, la disciplina nata intorno agli anni Sessanta dall’incrocio tra scienza psichiatrica e antropologia culturale. Una disciplina giovane, che ha già una storia e diverse correnti al suo interno. Tutte sorte intorno a una domanda centrale: le malattie mentali che si riscontrano nell’Africa nera, sulle Ande o in Polinesia, sono totalmente diverse dalle nostre, da quelle tipiche dell’Occidente, o sono differenti solo nei modi in cui si esprimono? Sono “culturalmente ordinate”, rispondono gli autori del volume, intendendo due cose: che queste sindromi esistono solo all’interno di una classificazione, di un “ordine” culturalmente dato, e che si manifestano perché è la cultura che le impone, le “ordina”, appunto.

Ma tornando alla ragazza siberiana in preda all’attacco di Pibloqtok, ha senso chiedersi a quale delle malattie note alla psichiatria occidentale corrisponda questo disturbo, insomma cercare un suo equivalente nostrano? Abbiamo rivolto questa domanda a Salvatore Inglese, psichiatra, autore del libro insieme a Cesare Peccarisi.

“Direi proprio di no. Considerare i disturbi psichiatrici che osserviamo in culture diverse dalla nostra come delle varianti fenomeniche di un unica forma patologica è un’idea superata. Presuppone infatti che categorie come l’inconscio o il complesso di Edipo siano universali per tutti gli esseri umani, ma questo non è vero. Prendiamo per esempio un paziente africano che si presenti da me in preda a un attacco di angoscia profonda e di terrore come se fosse sul punto di morire. Io non devo interpretare questi sintomi in base alle conoscenze cliniche della mia scienza. Non devo pilotarlo dentro le mie categorie. Non ho alcuna autorità di tradurre i segni che osservo nel mio linguaggio, perché non attribuisco alle mie classificazioni nessun carattere assoluto. Del resto, anche se lo facessi, cosa ci guadagnerebbe il mio paziente? Forse un permesso di soggiorno, ma a costo di recidere tutti i legami con la sua cultura originaria”.

Ma lei, in quanto psichiatra occidentale, può alleviare la sua sofferenza?

“Certo, ma devo abbandonare la prassi a me nota. Non devo pretendere che sia lui a venire dove sono io. L’incontro deve avvenire in un punto intermedio che obbliga anche me a uno spostamento. Intanto, devo parlare la sua lingua. Ci sono concetti che non possono essere tradotti e che sono pensabili solo nella sua lingua. Torniamo al paziente africano: parlando con lui scopro che è stato vittima di stregoneria, e che nella sua vicenda è centrale l’esistenza di un “oggetto sortilegio”. Ma io non ho un nome per dire “oggetto sortilegio”: come posso interagire terapeuticamente con lui se le mie caselle rimangono buie? Sicuramente gli strumenti per curarlo non si trovano nel mio campo tecnico. Per questo paziente la soluzione può stare nel dare la caccia a chi ha posto l’oggetto malefico. Questa è per lui la cura più appropriata”.

Sembra una posizione davvero rivoluzionaria. Questa specie di relativismo a tutto tondo mette in crisi la stessa psichiatria?

“Non parlerei di relativismo, quanto di anti-universalità. E in questo senso sì, credo che questo approccio comporti una rivoluzione nella scienza psichiatrica in generale. Si può dire che la necessità di trovare degli strumenti per affrontare i disagi psichici degli immigrati, sempre più numerosi, ha portato a una rilettura anche delle nostre acquisizioni. A mio avviso, l’etnopsichiatria mette in crisi la posizione di chi crede che tutti gli italiani o gli occidentali condividano gli stessi modelli di funzionamento mentale. Ma anche tra i nostri connazionali non ci sono universali: per esempio, non tutti hanno un inconscio di tipo freudiano. Quelli che si rivolgono ai maghi o ai guaritori non credono di possedere un inconscio. E quindi con loro il trattamento psichiatrico non funziona. Certo, io posso dire a queste persone che invece l’inconscio ce l’hanno, ma questa assomiglia più a una propaganda che a una azione terapeutica”.

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