Le orecchie di Saturno e gli abbagli di Galileo

La via che conduce alle scoperte scientifiche è costellata di crocevia che portano lontano dalle conclusioni corrette. Per risolvere il problema non è neppure sufficiente affidarsi totalmente all’osservazione “obiettiva” della natura perché nessuna osservazione è veramente tale, ma tutte sono influenzate dal retroterra culturale e dall’ambiente in cui lavora il ricercatore. L’unica via dunque è tentare di compiere un faticosissimo lavoro di interpretazione di ciò che si è osservato. Questo, in sintesi, il monito che Stephen Jay Gould ha lanciato nel corso di un seminario tenutosi il 14 giugno a Roma all’Accademia dei Lincei. Per avvalorare la sua tesi, il celebre studioso dell’evoluzione che lavora ad Harvard ha ricordato esempi di illustri ricercatori del passato i quali, tratti in inganno dall’apparenza di ciò che osservavano, si convinsero della veridicità di ipotesi errate. Fra essi, a sorpresa, si trova anche un membro eccellente dell’Accademia romana, proprio colui che è considerato il “padre” di tutti gli scienziati moderni: Galileo Galilei.

Lo studio della natura

Nel XVI secolo chi studiava le scienze naturali seguiva un approccio che oggi, a più di quattro secoli dalla nascita di Galileo, appare obsoleto. All’epoca le scienze, la filosofia e la teologia erano indissolubilmente connesse e trovavano giustificazioni e conferme le une nelle altre. Così non appariva affatto strano che i fossili fossero di natura inorganica, e non tracce di organismi passati, perché si riteneva che la Mano Divina avesse ripetuto in contesti diversi le medesime forme, come prova della sua azione creatrice. Per lo stesso motivo, si diceva, le radici di una pianta riecheggiano la forma di una mano e i tuberi ricordano il carapace dei crostacei. Questo tipo di impianto teorico venne spazzato via dal metodo scientifico introdotto da Galileo e fondato sulla combinazione di osservazioni, esperimenti e deduzioni.

Tuttavia, almeno in una circostanza, anche il grande scienziato commise un errore di metodo. Osservando Saturno con il suo cannocchiale, nel 1610 Galileo notò la presenza di strane strutture, che noi oggi sappiamo essere gli anelli ma che egli credette essere piccoli pianeti accostati a quello principale, proprio come le orecchie di Topolino lo sono alla sua testa. “In occasione di questa scoperta Galileo inviò un messaggio a Keplero, comunicandogli di aver osservato un pianeta costituito da tre parti”, spiega Gould. “E’ emblematico il fatto che utilizzò il verbo ‘osservare’ e non per esempio ‘ipotizzare’, perché indica come Galileo considerasse l’ipotesi di un pianeta costituito da tre parti inoppugnabile e non bisognosa di conferme. E ciò per il semplice fatto che questo era quanto aveva visto con i propri occhi. Proprio la fiducia nella sua osservazione lo indusse a sbagliare, come si scoprì tempo dopo, quando le due misteriose escrescenze si rivelarono in realtà anelli di polveri e frammenti solidi”.

Gli abbagli di Galileo

Naturalmente era molto difficile supporre l’esistenza di oggetti inaspettati come anelli intorno a un pianeta, specialmente con gli strumenti in possesso di Galileo. Tuttavia egli non dubitò mai di aver visto un pianeta ‘triplo’, neppure nel 1612 quando, osservando nuovamente Saturno dopo una lunga interruzione, notò che le due escrescenze erano scomparse. “Ciò era dovuto a un effetto della rotazione del pianeta, che rendeva meno visibili gli anelli”, spiega Gould, “ma lo scienziato, certo di aver osservato due escrescenze ed enormemente stupito di non riuscire a individuarle nuovamente, fu indotto a chiedersi se non fossero state inghiottite dal pianeta, come accadde ai figli del mitico Saturno che vennero divorati dal loro padre”. A onor del vero, in questa occasione Galileo formulò anche l’ipotesi corretta, ovvero che le escrescenze sarebbero state nuovamente visibili quando la posizione di Saturno rispetto alla Terra fosse tornata simile a quella del 1610.

Gli errori di Stelluti

Galileo non fu l’unico a cadere nel trabocchetto di non interpretare a sufficienza i risultati delle sue osservazioni. Pochi anni dopo, infatti, anche uno dei fondatori dell’Accademia dei Lincei, Francesco Stelluti, amico e ammiratore di Galileo, incorse nel medesimo errore di metodo mentre si trovava impegnato a tentare di risolvere un altro dei grandi problemi scientifici dell’epoca: la natura dei fossili. Riconoscere a questi un’origine organica portava a notevoli conseguenze, come per esempio alla revisione dell’età della Terra. Inoltre il loro studio serviva a chiarire l’organizzazione dei viventi, che secondo alcuni dovevano essere divisi in tre regni – animale, vegetale e minerale – mentre per altri procedeva ininterrotta, attraverso alcune forme di transizione, dai minerali, alle piante, agli animali, agli stessi angeli. L’occasione di risolvere il dilemma si presentò a Stelluti quando gli venne chiesto di indagare sulla natura di un misterioso legno pietrificato che si trovava nell’Italia centrale.

Dunque Stelluti esaminò attentamente i campioni in suo possesso e notò che effettivamente presentavano le classiche nervature del legno, ma in realtà erano costituiti da minerali, si trovavano immersi nel terreno e, tuttavia, non presentavano tracce di semi, fiori o foglie. “Mettendo insieme le sue osservazioni e ritenendole inoppugnabili, Stelluti non compì il necessario sforzo di interpretazione e cadde nella trappola: dichiarò infatti che il legno fossile aveva origine dalla terra e doveva essere considerato una forma di transizione, intermedia tra i minerali e i vegetali”, continua Gould. “In questo modo avvalorò la tesi che la Natura sia organizzata in modo continuo e non in regni”. L’errore di metodo di Stelluti fu arduo da superare: il suo lavoro venne citato e condiviso da numerosi scienziati dopo di lui e ci volle molto tempo prima che l’origine organica del legno fossile venisse riconosciuta e accettata.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here