Le risorse non sono infinite

Il dibattito fra deplezionisti (o catastrofisti) e abbondantisti (o cornucopiani) è in corso da decenni. Questi due punti di vista si basano su due visioni differenti: la prima che i minerali esistono in quantità finite e che quindi l’esaurimento è inevitabile, la seconda che i limiti fisici non sono importanti di fronte a fattori di mercato che faranno sì che quantità sempre maggiori di risorse minerali si renderanno disponibili nel futuro. Una interpretazione estrema del punto di vista abbondantista ha portato alcuni autori (per esempio, ma non solo, Julian Simon nel 1981) ad affermare che le risorse minerali sono «infinite». Nella pratica, entrambi i punti di vista non sono dei veri e propri modelli ma descrizioni qualitative basate in buona parte su atti di fede. Se però ci basiamo su dati storici quantitativi e su modelli dettagliati dell’estrazione dei minerali, vediamo che la combinazione di fattori economici e fattori fisici fa sì che l’estrazione dei minerali segua una «curva a campana » detta anche «curva di Hubbert». Si trova che i fattori di mercato enfatizzati dagli abbondantisti non sono sufficienti a contrastare il progressivo esaurimento, cosa che determina una graduale diminuzione dell’estrazione fino a cessare del tutto. Evidentemente, le risorse minerali non sono infinite.

Le risorse

A una recente conferenza sull’esaurimento del petrolio, un membro dell’udienza si è alzato e ha accusato uno dei conferenzieri dicendo: «Lei è un bugiardo, perché nelle sue stime non ha incluso il petrolio dalle sabbie bituminose?». Posta in questi termini, la domanda non è il massimo della buona educazione, ma non manca di una certa logica. In effetti, quando si parla di petrolio o di altri minerali, che cosa intendiamo esattamente come «riserve» (o, più correttamente, come «risorse»)? Il concetto di risorse è definito come la somma di tutti i tipi minerali da giacimenti noti o presunti che vengono considerati estraibili, nel senso che se ne può ottenere un vantaggio economico ai correnti prezzi del mercato per mezzo della tecnologia esistente. Nel caso del petrolio, si intendono come risorse, normalmente, tutti i tipi di liquido che si possono estrarre da pozzi. È vero però che possiamo fare petrolio da sostanze solide come le sabbie o gli scisti bituminosi. Non dovremmo considerare anche questi come «petrolio»? D’altra parte, possiamo sintetizzare combustibili liquidi anche dal gas naturale e dal carbone; non dovremmo considerare anche queste risorse? E non dovremmo considerare anche cose come gli idrati di metano, che al giorno d’oggi nessuno sa come estrarre ma che, secondo alcuni, potrebbero diventare una sorgente di idrocarburi molto importante nel futuro? Cosa dire poi della possibilità di riciclare i rifiuti, cosa evidentemente impossibile nel caso del petrolio, ma che non lo è affatto per minerali o metalli come il rame?

Il cuore del dibattito si concentra in questioni come queste. I deplezionisti dicono che dovremmo attenerci a una definizione ristretta del concetto di «risorsa minerale» mentre gli abbondantisti dicono che dovremmo vedere le cose più in generale e avere più fede nel potere dei mercati e della tecnologia. Se è vero che i deplezionisti non dicono che finiremo le risorse all’improvviso, è anche vero che alcuni degli abbondantisti si sono fatti portare un po’ troppo lontano dalle loro tesi, arrivando a dire che le risorse minerali sono in effetti infinite. Julian Simon ha detto esattamente questo nel suo libro del 1981 The Ultimate Resource. Un altro autore è Morris Adelman, che nel suo libro The Economics of Petroleum Supply (1993), ha scritto: «I minerali sono sostanzialmente inesauribili. Il petrolio, il gas, il carbone e il rame […] non saranno mai esauriti».

Ne segue il punto di vista che non ci dovremmo preoccupare della disponibilità di risorse minerali. Il mercato si prenderà cura di tutto. Queste sono, evidentemente, delle posizioni un po’ estreme, ma non sono affatto isolate. Non è raro trovare l’affermazione che «il mercato crea risorse». Per esempio, l’associazione nucleare mondiale (World Nuclear Association, WNA) dice che «un raddoppio del prezzo dell’uranio rispetto ai valori attuali potrebbe creare un aumento di un fattore dieci delle risorse disponibili».

Questo tipo di affermazioni deriva da un concetto che va sotto il nome di «piramide delle risorse» e che risale, fondamentalmente, a un modello descritto per la prima volta da Erich Zimmermann nel 1933. L’idea della piramide delle risorse è che tutti i minerali si trovano in forme differenti, in particolare in depositi più o meno concentrati. I minerali in alta concentrazione sono facili da estrarre e, quindi, costano poco. Quelli più diluiti (come pure l’estrazione dai rifiuti) sono più difficili da estrarre e, quindi, costano cari. Ovviamente, l’industria mineraria tenderà a estrarre prima i minerali meno costosi. Via via che questi minerali a basso prezzo si esauriscono, la produzione diminuisce e il prezzo di mercato aumenta. Ma con l’aumento del prezzo di mercato, diventa conveniente estrarre minerali più diluiti. Dato che questi minerali diluiti esistono, di solito, in quantità maggiori di quelli concentrati, il risultato finale è che le risorse aumentano invece di diminuire. A questo si aggiunge l’idea che i miglioramenti tecnologici porteranno sempre, alla fine, i prezzi di estrazione delle risorse diluite al livello di quelli delle risorse concentrate. Questo è quello che si chiama, appunto, «piramide delle risorse»: via via che uno estrae minerali, accede a risorse sempre più grandi. Come dicono gli americani, si può «mangiare la torta e averla ancora». In questo caso, addirittura, la torta diventa sempre più grande via via che se ne tagliano delle fette. L’idea della piramide delle risorse suona bene sotto certi aspetti, ma sembrerebbe anche che ci sia qualcosa che non va. Come si può dire seriamente che le risorse minerali sono «infinite»? Come può il mercato «creare risorse» senza l’aiuto di processi geologici che, come sappiamo, richiedono tempi di milioni di anni per essere completati? Cosa passa nella testa di chi scrive che l’industria nucleare aspetta con gioia che il prezzo della sua risorsa di base si raddoppi? E che prova abbiamo che la tecnologia può sempre ridurre i prezzi di estrazione delle risorse diluite a livelli sopportabili?

Queste questioni sono importanti al giorno d’oggi in cui un numero sempre crescente di ricercatori ed esperti sta sollevando il problema dell’esaurimento delle risorse e, in particolare, del petrolio (1). Spesso, chi deve prendere delle decisioni per fronteggiare questo tema non ha né il tempo né gli strumenti culturali per prendere delle decisioni veramente informate. Se decisioni importanti sono prese sulla base dei ragionamenti di persone come Julian Simon, ovvero che le risorse sono «infinite», allora siamo messi molto male. D’altra parte, esistono moltissimi modelli economici che danno risultati anche completamente diversi. Come destreggiarsi fra la babele di modelli, alcuni dei quali parlano di crescita economica continua entro gli orizzonti futuri concepibili e altri che parlano di un collasso imminente? In quello che segue, cercheremo di esaminare la questione partendo, come è sempre buona norma, dai dati sperimentali, esaminando casi storici di esaurimento di minerali.

La babele dei modelli economici

Ci sono molti casi noti di giacimenti minerali che sono stati sfruttati fino a essere abbandonati o comunque fino alla condizione di un declino significativo della produzione. I più rilevanti per quello che stiamo discutendo sono quelli di regioni geografiche piuttosto grandi, che si può supporre possano approssimare il comportamento dell’intero pianeta. I dati mostrano normalmente che l’estrazione segue una curva «a campana» dove a una fase iniziale di crescita rapida fa seguito un rallentamento. L’estrazione raggiunge un massimo, dopo di che si comincia a estrarre sempre di meno. A un certo punto, la quantità di minerale che si riesce a estrarre diventa talmente piccola che non ne vale più la pena. Un esempio classico di questo comportamento è quello delle miniere di carbone della Pennsylvania.

Come si vede nella figura 1, la curva di produzione ha una forma a «u» rovesciata o «a campana». La si può descrivere abbastanza bene come una gaussiana anche se l’accordo non è perfetto. Questo tipo di curve si osservano comunemente per l’estrazione di tutti i minerali. Non solo, ma le si osserva anche nel caso dell’«estrazione» di risorse biologiche, se non si dà all’ecosistema il tempo di rinnovarsi. Vediamo qui la curva di produzione dell’olio di balena nell’Ottocento, al tempo di Moby Dick. Era l’epoca in cui si cacciavano le balene per ricavarne olio per l’illuminazione. Il caso dell’olio di balena è particolarmente interessante perché descrive un caso di esaurimento globale di una risorsa. I dati disponibili sono quelli del mercato americano, ma le baleniere percorrevano tutti gli oceani e il mercato era più o meno come è oggi quello del petrolio. Anche qui, la curva è a campana e può essere descritta ragionevolmente bene da una gaussiana (Fig. 2).

Il primo a notare la generalità di questo tipo di curve è stato il geologo americano Marion King Hubbert negli anni Cinquanta. Hubbert non si limitò a notare la cosa, ma la utilizzò per fare delle previsioni. Nel 1956, fece una stima della quantità di petrolio che si sarebbe potuta estrarre negli Stati Uniti e concluse che la curva di produzione sarebbe passata per un massimo verso il 1970, per poi declinare inesorabilmente. A quel tempo, furono pochi a credere a una predizione che sembrava pessimistica, o addirittura catastrofista. In realtà, la produzione di petrolio americana passò per un massimo nel 1971 e sta continuando a declinare ancora oggi. Da allora, il massimo della produzione di una risorsa minerale si chiama comunemente «picco di Hubbert» e la curva che descrive la produzione «curva di Hubbert». Vediamo che il petrolio degli Stati Uniti non si è ancora esaurito e che non si esaurirà ancora per molti anni. Tuttavia, se ne estrae sempre meno e a un certo punto se ne potrà estrarre talmente poco che non ne varrà più la pena (Fig. 3).

Da questi dati, vediamo che l’esaurimento delle risorse minerali è una cosa progressiva che dà ampi segnali in anticipo di quello che sta succedendo. Esaminando la curva della produzione di petrolio mondiale, vediamo segni evidenti di rallentamento della produzione (Fig. 4).

La curva di produzione mondiale è più irregolare di quella degli Stati Uniti a causa delle grandi «crisi del petrolio» degli anni Settanta. Quindi, non la si può descrivere con una semplice gaussiana o, comunque, l’accordo con una gaussiana è soltanto approssimativo. Un buon fitting si può tuttavia ottenere utilizzando una funzione di Bass modificata, secondo Renato Guseo (Fig. 5). Secondo questi dati, come pure altri tipi di analisi, il picco di produzione dovrebbe verificarsi entro pochi anni, anche se a parere di qualche autore il picco potrebbe essere ancora lontano un decennio o forse più. Si tratta ora di ritornare alla domanda che ci eravamo fatti inizialmente: possiamo modellizzare l’andamento dell’estrazione ottenendo curve «a campana» come quelle osservate storicamente? Quali sono i fattori fisici ed economici che producono questo tipo di curve? Questo è un punto importante dato che ci permette di focalizzare l’attenzione su modelli che sono in grado di produrre questo tipo di curve. Certi modelli, come quello standard basato su una funzione di produzione tipo Cobb-Douglas (2) non sono in grado di produrre curve con un massimo, ma soltanto curve a crescita continua o, al massimo, che si stabilizzano su un valore asintotico.

Petrolio e balene

Cerchiamo allora per prima cosa di esaminare la questione in termini qualitativi. Che cosa ha impedito, per esempio, ai petrolieri americani di continuare a estrarre il loro petrolio al ritmo di prima del picco? Immaginiamoci il tempo in cui i balenieri, verso i primi anni del secolo XIX, avevano cominciato a cacciare le balene oceaniche. All’inizio c’era grande abbondanza di balene e molti si erano accorti che si poteva guadagnare bene con le navi baleniere. Con gli anni se ne costruivano sempre di più. Con l’aumento del numero di baleniere, aumentava la produzione di olio di balena, ma diminuiva anche il numero delle balene. A un certo punto, gli animali non erano più abbondanti come prima e le baleniere erano costrette a fare viaggi sempre più lunghi per trovarle. Con le balene che continuavano a diminuire, i balenieri cominciavano a catturarne di meno. Piano piano, è andata a finire che le baleniere non rendevano più ai loro proprietari. Verso la fine dell’Ottocento la caccia a un certo tipo di balene, quelle da cui si estraeva olio, è cessata. Da notare che non è stata la sparizione fisica delle balene a causare la fine della caccia, ma il fatto che erano diventate troppo poche perché fosse conveniente cacciarle.

La storia della curva di produzione del petrolio è simile a quella della caccia alle balene. Una volta, secoli fa, si raccoglieva a mano il petrolio che filtrava da solo in superficie in piccole quantità. Poi, nel 1859, l’americano Edwin Drake ebbe l’idea di scavare per trovare il petrolio sottoterra. Questa era, evidentemente, un’impresa più difficile e costosa. Tuttavia, trivellando si potevano trovare grandi quantità di petrolio. Da allora, di petrolio se ne è estratto sempre di più, ma anche con sempre maggiore fatica. I pozzi del tempo di Drake erano profondi solo poche decine di metri, ma sono ormai esauriti. Oggi bisogna perforare per chilometri per trovare petrolio in quantità utili, arrivando fino al fondo del mare, l’offshore, cosa che è, evidentemente, ancora più complicata e costosa. L’estrapolazione dei dati secondo vari approcci porta a concludere che nel prossimo fu turo gli aumenti dei costi di estrazione causeranno un declino della produzione di petrolio mondiale. Possiamo mettere in forma quantitativa queste considerazioni mediante modelli basati sul concetto di «dinamica dei sistemi» sviluppato da Jay W. Forrester, ricercatore del MIT negli anni Sessanta. Storicamente, il primo di questi modelli a prendere in considerazione l’esaurimento delle risorse minerali è quello sviluppato dal gruppo del MIT di Dennis Meadows e altri che fu poi popolarizzato nel ben noto libro del 1972 The Limits to Growth, in Italia tradotto come I limiti dello Sviluppo. Questo libro divulgativo ha subito una demonizzazione basata su propaganda e false accuse, ma il lavoro che c’era dietro rimane ancora oggi una pietra miliare nello sviluppo di questi metodi di modellizzazione. Il lavoro del gruppo di Meadows è stato continuato negli anni da numerosi specialisti. Per esempio, già nel 1972 Roger Naill modellizzava l’estrazione di gas naturale negli Stati Uniti. Il lavoro è stato poi proseguito da vari autori come Sterman, De Vries, Fiddaman e altri (3).

Nella versione più semplice, il modello dinamico dell’estrazione considera due elementi: entità del capitale economico disponibile ed entità delle risorse estraibili. Questi elementi interagiscono fra loro in modo, appunto, dinamico. Estrarre minerali crea risorse di capitale, questo capitale può poi essere utilizzato per estrarre più minerali. Tuttavia, la creazione di capitale diventa sempre più difficile via via che il minerale si esaurisce e la sua estrazione diventa più costosa. In pratica, quello che succede nel processo estrattivo è che l’estrazione declina non per mancanza di minerale, ma per mancanza di capitale!

Molto spesso, il modello ci dice che l’estrazione va a zero ben prima che tutto il minerale potenzialmente estraibile venga estratto. Questo ricorda la famosa affermazione di Zaki Yamani (ex ministro del petrolio dell’Arabia Saudita) che «l’età della pietra non finì perché finirono le pietre». Il modello può prendere in considerazione miglioramenti tecnologici nell’estrazione o nella generazione di capitale. Questo può cambiare la forma della curva, che può diventare asimmetrica, ovvero spostata in avanti. Questo tipo di curve asimmetriche sono state osservate in certi casi storici, come per esempio la pesca dello storione nel mar Caspio. Ma non cambia il fatto che a un certo punto la produzione deve cominciare a declinare. Considerare due fattori del sistema (capitali e risorse) già ci ha fatto fare un grosso passo avanti nella comprensione di cosa ci possiamo aspettare nel futuro. Ma possiamo fare ancora di più e considerare molti altri fattori, i modelli possono essere «complessificati» a piacere includendo fattori endogeni ed esogeni, come prezzi, variazioni tecnologiche, effetti del mercato. Per esempio, mostriamo qui i risultati di uno studio recente basato sul modello dinamico WOCAP sviluppato da Samsam Bakthiari (2004) e altri (Fig. 6). Qui vediamo che il modello riesce a riprodurre, come in generale tutti i modelli dinamici su questo punto, la presenza di un picco di produzione che in questo caso si trova intorno al 2006-2007.

Questi modelli provano che le risorse minerali non sono «infinite ». I fattori di mercato sono importanti, ma a lungo andare non riescono a compensare l’esaurimento fisico del minerale la cui produzione a un certo punto deve necessariamente declinare. In altre parole, la «piramide delle risorse» sta in piedi sulla punta. Il caso del petrolio, con il suo picco imminente non è che uno dei molti casi di esaurimento di risorse minerali. Il petrolio è particolare nel senso che è una delle risorse principali (dette «primarie») e che non lo si può riciclare. Per altre risorse primarie (gas e carbone, per esempio) il problema del picco di produzione è più lontano nel tempo, ma non poi di tanto. Altre risorse, come per esempio il rame, il ferro e altri metalli, si possono riciclare, quindi il problema dell’esaurimento si pone molto meno. Ma senza energia – che oggi viene principalmente dal petrolio – non si può riciclare niente, per cui l’esaurimento del petrolio e delle altre risorse primarie porta come conseguenza l’esaurimento di una parte di tutte le risorse. Possiamo quindi considerare le risorse minerali in generale come componenti di un sistema globale (il «sistema mondo») che contiene anche risorse non minerali (agricole). Inoltre, dobbiamo tener conto di fattori importantissimi come la popolazione e l’inquinamento.

Vediamo che il «sistema mondo» funziona come risultato delle interazioni di diversi elementi che non possiamo considerare isolatamente. Queste interazioni sono complesse e si influenzano l’una con l’altra. Per esempio, l’abbondanza di minerali e di risorse agricole produce un incremento sia della popolazione che dei capitali. Però produce anche un maggiore inquinamento e questo non è solo un fastidio ma qualcosa che può influire direttamente sui parametri economici del sistema. Pensiamo al riscaldamento globale causato dai combustibili fossili: i disastri che ne conseguono riducono i capitali disponibili, per esempio nella forma delle istallazioni petrolifere del Golfo del Messico distrutte dall’uragano Rita nel 2005. Quando poi l’effetto dell’esaurimento delle risorse minerali comincia a farsi sentire, occorre impiegare risorse di capitali sempre crescenti per contrastarlo. Questi fattori rendono impossibile mantenere l’aumento della produzione e, a lungo andare, causano anche una riduzione della popolazione. Alla fine, il comportamento del sistema mondo somiglia a quello che Hubbert aveva trovato per il sistema più semplice dell’estrazione dei minerali. Ovvero, vediamo una crescita iniziale seguita da una decrescita, o addirittura da un collasso, dopo essere arrivati a un massimo.

Questo tipo di considerazioni, come pure il concetto stesso di «sistema mondo», erano la base del lavoro pioneristico del 1972 del MIT che è noto nella forma dello studio che fu pubblicato in quell’anno con il titolo I Limiti dello Sviluppo e di cui abbiamo già parlato. Vista la confusione di cose che sono state dette in proposito, vale la pena di rivedere il risultato del «modello base» di quel lavoro. Il lavoro del MIT del 1972 considerava correttamente i fattori principali dell’economia mondiale. Sia pure con forti semplificazioni dovute ai limiti della potenza di calcolo dell’epoca, il risultato principale del lavoro rimane tuttora valido. Questo risultato era la tendenza del sistema a quello che oggi viene chiamato overshoot, ovvero il superamento della capacità delle risorse planetarie di rigenerarsi per sostenere in modo stabile nel tempo il consumo da parte della civiltà umana. La conseguenza è il «rientro» causato da una combinazione di effetti dell’inquinamento (o effetti climatici) e dalla riduzione del flusso delle risorse nell’economia. Secondo i calcoli dell’epoca, il rientro era previsto molto approssimativamente entro i primi due decenni del ventunesimo secolo. I calcoli sono stati rifatti recentemente (2004) ottenendo risultati molto simili. È ovvio che il modello non fornisce predizioni precise, ma soltanto indicazioni del comportamento generale del sistema. Tuttavia, è notevole come già da una decina di anni si sia diffusa l’opinione generale che le previsioni del MIT erano «sbagliate» sulla base di una serie di affermazioni false e di interpretazioni arbitrarie del testo del 1972. Non si può certo dire però che il lavoro del MIT fosse sbagliato per il fatto che ancora non abbiamo visto il collasso generalizzato dell’economia planetaria. Questo collasso (come si vede dalla figura 7), era previsto per un tempo ancora futuro rispetto a oggi, verso il 2010-2015. Non è detto che certe difficoltà economiche che stiamo vivendo in questo periodo non siano dei sintomi di una possibile crisi che potrebbe verificarsi approssimativamente nei tempi previsti.

Negli anni, sono stati sviluppati modelli dinamici dell’economia molto più dettagliati di quelli del «modello del mondo» del MIT. Si possono introdurre parametri come i prezzi, l’effetto di politiche di tassazione specifiche (per esempio, la «carbon tax») come pure varie ipotesi di sviluppo tecnologico per esempio di fonti di energia rinnovabile o di energia nucleare. Molti di questi modelli cercano di descrivere esplicitamente l’interazione fra le attività economiche umane e il cambiamento climatico globale dovuto all’immissione di CO2 nell’atmosfera. Evidentemente, più parametri si inseriscono nel modello, più le cose diventano complesse e le predizioni incerte. In questo senso, si può sostenere che modelli molto «aggregati», ovvero che non fanno ipotesi specifiche su fattori difficilmente prevedibili, come l’andamento dei prezzi, possono dare risultati più affidabili. Nessun modello può prevedere il futuro con certezza, ma è anche vero che chi ne ignora i risultati lo fa a proprio rischio e pericolo.

Conclusione

Secondo i risultati dei modelli, dunque, non solo le risorse minerali non sono infinite, come alcuni hanno cercato di sostenere, ma il problema dell’esaurimento si pone anche in tempi abbastanza brevi. Siamo quindi di fronte a problemi che non possiamo ignorare ma che non possiamo neanche considerare irrisolvibili. Lo diventeranno, tuttavia, se continuiamo a cercare di crescere sempre più sia nei consumi sia nella popolazione, senza preoccuparci dell’esaurimento delle risorse e dei danni che stiamo facendo all’ambiente che ci circonda. Danni che – a lungo andare – si ritorcono contro noi stessi.

NOTE

(1) Vedi l’Association for the Study of Peak, Oil and gas, ASPO, www.peakoil.net.

(2) Vedi, per esempio, NORDHAUS W., Brookings Papers on Economic Activity , 2, 1,1992.
(3) Vedi, per esempio, www.albany.edu/cpr/sds/DL-IntroSysDyn/ energy.htm.

BIBLIOGRAFIA

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SIMON J., The Ultimate Resource, Princeton University press, 1981.

NORDHAUS W., «Lethal Model 2: The Limits to Growth Revisited», Brookings Papers on Economic Activity, 2, 1992.

ADELMAN M. A., The Economics of Petroleum Supply, MIT press, Boston 1993.

BAKHTIARI, A. M. S., «World oil production capacity model suggests output peak by 2006-07», Oil & Gas Journal, April 26, 2004. World Nuclear Association, Nuclear electricity, 2003: www.world-nuclear.org/education/ne/ne3.htm#3.3.

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