Guerra nei balcani, l’eredità dell’uranio impoverito

Nel marzo scorso, la Nato ha ammesso per la prima volta di aver sganciato nel corso della “guerra umanitaria” 31 mila proiettili all’uranio impoverito. Solo sul Kosovo però. Per quanto riguarda la Serbia le autorità militari tacciono. Non forniscono dati, non negano né confermano. Ma un team di ricercatori italo-serbi ha analizzato campioni di suolo prelevati a Novi-Sad, e i risultati non lasciano dubbi: “L’abbiamo accertato: l’impiego di proiettili a base di uranio impoverito c’è stato in Serbia”, denuncia Predrag Polic, capo del Dipartimento di chimica all’Università di Belgrado, in una conferenza stampa organizzata il 25 maggio dalla Commissione esteri del Senato.

Polic, con l’aiuto del fisico Maurizio Martellini della organizzazione Landau Network, ha prelevato due campioni in Serbia, uno di terreno e uno di miele. Il primo per verificare la semplice esistenza dell’uranio nel suolo, il secondo per accertare se fosse già entrato nella catena alimentare. I campioni sono stati esaminati nei laboratori dell’Enea. “Nel miele non abbiamo trovato nessuna traccia di uranio”, annuncia Massimo Esposito, il ricercatore italiano che ha condotto le analisi. Il campione del suolo si è invece mostrato molto interessante: “L’uranio”, spiega Esposito, “è presente in natura in tre isotopi fondamentali: l’uranio 238, l’uranio 235 e l’uranio 234. E questi mantengono rapporti costanti. Nell’uranio impoverito invece i rapporti tra l’isotopo 235 e l’isotopo 238 sono notevolmente diversi”. Il campione analizzato presentava rapporti ben differenti da quelli naturali. “Possiamo quindi affermare con un 99 per cento di probabilità”, conclude il ricercatore, “che quello trovato in Serbia non è uranio di origine naturale”.

“Adesso vogliamo proseguire gli studi per localizzare esattamente le zone contaminate”, rilancia il chimico serbo. Bisogna vedere se le infiltrazioni possono aumentare o diminuire nel corso del tempo, e se riescono a inserirsi nella catena alimentare. “L’uranio”, ricorda Polic, “è un elemento particolarmente dannoso quando si ossida a contatto con l’aria. Se entra nell’organismo umano, si deposita nei reni e nei polmoni. Estrarlo da lì è quasi impossibile: continuerebbe dunque a esercitare la sua attività radioattiva all’interno del corpo”. Ma l’Università di Belgrado non ha strumenti adatti per condurre analisi rigorose. Anche per questo Polic è in Italia: chiede di non interrompere la collaborazione con l’Enea. “Abbiamo bisogno del vostro aiuto. Vogliamo solo arrivare a dati certi, stabilire la verità. Perchè tutto questo rappresenta un pericolo a lunga scadenza per la popolazione delle aree bombardate”, conclude lo studioso.

Proiettili all’uranio impoverito erano stati utilizzati per la prima volta dalla Nato nella guerra del Golfo. Non sono vietati dalle convenzioni internazionali, ma hanno comunque delle caratteristiche “inumane”, afferma Tana de Zulueta, senatrice Ds. Secondo alcuni studi, infatti, l’aerosol prodotto dalle munizioni al momento dell’esplosione produrrebbe effetti prolungati e dannosi sia sull’ambiente, sia sul patrimonio genetico degli individui. “Crediamo sia ora di fare una valutazione completa e scientifica dell’impatto ambientale e biologico causato dall’uranio impoverito”, dice la de Zulueta, che sta conducendo in Parlamento una battaglia perchè l’Italia si faccia promotrice di una campagna per la messa al bando di bombe e proiettili di questo tipo. Nel frattempo il governo, cui era stata presentata il 23 marzo scorso una mozione firmata dai senatori Ds, ha dato vita a una Commissione tecnico-scientifica che parteciperà a una missione internazionale nelle zone di guerra dei Balcani. E’ già al lavoro, ma in modo informale: la legge che l’ha istituita è stata approvata dalla Commissione esteri della Camera ma non è ancora giunta in aula. “Siamo in una posizione delicata”, spiega il sottosegretario all’Ambiente, Vincenzo Calzolaio, che presiede la Commissione tecnica, “parliamo di utilizzo di armi ad opera di un’alleanza – la Nato – di cui fa parte anche l’Italia, però ci siamo impegnati a promuovere un’azione congiunta dei governi e delle istituzioni scientifiche per affrontare concretamente la questione dell’uranio”. In primo luogo, per ottenere dalla Nato tutte quelle notizie che consentirebbero una verifica sul campo. E’ già pronto, invece, un vademecum su cosa fare nel caso di ritrovamento dei proiettili, utile anche ai militari in missione di pace.

“L’ex Jugoslavia può diventare una specie di laboratorio di pace”, afferma Martellini. E ammonisce: “Quei proiettili possono essere utilizzati di nuovo nel futuro, e per una ragione molto semplice: l’uranio impoverito è uno scarto della produzione di uranio. Gli Usa ne producono 30 mila tonnellate l’anno. Costruire armi è il modo più facile per smaltirlo. Anche perchè ha ottimi effetti militari. Se riusciamo a formalizzare in un trattato internazionale la pericolosità di questa sostanza, avremo garantito un minimo di sicurezza in più”.

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