Da sette anni l’Italia ignora la legge europea che vieta l’utilizzo di reti derivanti per la pesca di tonno e pesce spada. Per questo, a poco più di un anno dal ricorso presentato dalla Commissione, la Corte di giustizia europea ha emesso ieri una sentenza di condanna nei confronti del nostro paese che potrebbe segnare la fine, una volta per tutte, di questa attività illegale tanto diffusa (qui il documento in italiano). Il condizionale però è d’obbligo visto che, nonostante le varie procedure per infrazione avviate dalla Commissione Europea dall’entrata in vigore del bando nel 2002, i porti del Belpaese non hanno mai negato ospitalità a imbarcazioni attrezzate con “spadare” lunghe fino a una decina di chilometri.
Più di 92 ne aveva documentate nel 2008 Oceana (vedi Galileo), l’organizzazione internazionale per la conservazione marina, che ha voluto nuovamente divulgare i dati in un convegno a Roma alla vigilia della sentenza.
Quell’inchiesta (qui il documento), accompagnata da eloquenti fotografie, fornì alla Commissione prove inequivocabili degli illeciti perpetrati dai pescatori italiani, oltre a un’analisi dei soldi spesi per una riconversione mai pienamente realizzata: 120 milioni di euro di fondi comunitari e italiani sono stati investiti dal 1997 al 2002 per smantellare 700 imbarcazioni. A quel punto il “caso Italia” con la sua flotta fuori legge non poteva più essere trascurato.
“Questa sentenza segna un ‘prima e dopo’ nell’eliminazione delle reti derivanti nel Mediterraneo. Adesso, la fine di questo tipo di pesca illegale è una possibilità plausibile, dopo sette anni di proibizione comunitaria”, ha commentato Xavier Pastor, direttore esecutivo di Oceana per l’Europa: “Speriamo che il provvedimento cambi la direzione che il Governo italiano ha tenuto durante questi anni”. (g.d.o)
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