Perché quando parliamo ai bambini usiamo tutti delle strane vocine

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(Foto: David Brooke Martin on Unsplash)

Dalla Cina alla Tanzania, dalla Scandinavia alla Polinesia, all’Amazzonia, al Canada: sembra che la nostra specie tenda a modulare la voce in modo simile quando si rivolge ai bambini. Lo racconta uno studio pubblicato su Nature Human Behaviour, condotto da un gruppo di ricerca composto da più di 40 scienziati di nazionalità diverse e guidato da Courtney B. Hilton e Cody J. Moser, rispettivamente della Harvard University di Cambridge (Stati Uniti) e della University of California di Merced (Stati Uniti). Le conclusioni derivano dall’analisi di oltre 1600 registrazioni vocali che i ricercatori hanno collezionato in 21 società diverse, distribuite nei sei continenti.

Ipotesi e analisi dei dati

In passato si era osservato che le varie lingue del mondo sembrano favorire certi accostamenti di suoni comuni alle altre, rispetto a tutti quelli possibili. Gli autori di questa ricerca si sono chiesti se anche nel contesto della comunicazione con i più piccoli, persone appartenenti a culture diverse e che parlano lingue differenti utilizzino modulazioni vocali simili. Quando ci rivolgiamo ad un bambino, infatti, istintivamente assumiamo un tono diverso rispetto a quello che adopereremmo nella conversazione con un adulto, e diversi studi sembrano indicare che questa stereotipizzazione abbia delle funzioni ben precise, come per esempio favorire l’apprendimento del linguaggio da parte del bambino e modulare il suo temperamento o i suoi stati d’animo. Ma questo – si sono chiesti gli studiosi – succede in modo simile per culture diverse? Per rispondere alla domanda, i ricercatori hanno registrato le risposte di 410 partecipanti allo studio dopo aver loro chiesto di rivolgere un discorso a un bambino “imbronciato”, poi a un adulto, e infine di immaginarsi di cantare una canzone rivolgendosi di nuovo a un bambino e poi a un adulto. Le 1615 registrazioni risultanti sono poi state analizzate con metodi computazionali – così da escludere l’introduzione di errori umani dovuti a pregiudizi o preconcetti inconsci – per studiarne 15 tipi diversi di caratteristiche acustiche, come tono, ritmo e timbro. 

I risultati

Ne è emerso che le caratteristiche acustiche dei discorsi e dei canti diretti ai bambini contengono elementi simili, se si confrontano le 21 diverse culture cui i partecipanti allo studio appartengono. Delle 15 caratteristiche studiate, 11 sembrano essere consistentemente distinguibili e condivise. In particolare, in tutti o nella maggior parte dei casi, prendendo in considerazione la voce dello stesso partecipante, un discorso rivolto a un bambino risulta caratterizzato da un tono più acuto e da una gamma di intonazioni generalmente più ampia. Queste caratteristiche sono generalmente utilizzate da diverse specie animali per comunicare in situazioni di assenza di pericolo, in contrasto con i suoni bassi e rochi impiegati in situazioni di aggressione o allarme. I ricercatori ipotizzano quindi che esistano radici comuni da ricercare nei principi fondamentali della bioacustica, la scienza che investiga l’impiego delle diverse forme di comunicazione animale in determinati contesti.

Un’altra caratteristica distintiva del linguaggio rivolto ai più piccoli sembrerebbe essere una maggiore chiarezza nell’impulso utilizzato per scandire le parole. Una sintesi valida per tutte le culture analizzate è che, messi tutti insieme, questi elementi porterebbero musicalità ai discorsi tipicamente rivolti ai bambini, finendo per farli assomigliare a delle canzoni.

Il coinvolgimento dei “naive listeners”

Il gruppo di ricerca ha poi coinvolto un gruppo di persone selezionate in modo casuale, chiedendosi se queste fossero in grado di riconoscere a chi erano diretti i suoni che gli proponevano di ascoltare. Lo hanno fatto tramite “Who’s listening?”, una piattaforma di citizen-science che consente di coinvolgere volontari in esperimenti di ricerca. I “naive listeners” (uditori inconsapevoli), ovvero le 51056 persone, residenti in 187 diversi paesi del mondo, selezione fra i partecipanti, sono state mediamente in grado di distinguere un discorso diretto a un bambino da uno diretto a un adulto. Vista la varietà del campione e a seguito di specifiche analisi, i ricercatori hanno concluso che questo non fosse collegabile a similitudini linguistiche fra chi aveva prodotto i suoni e chi li ascoltava. In altre parole, sembra che i “naive listeners” abbiano potuto riconoscere caratteristiche specifiche dei linguaggi tipicamente diretti ai bambini o agli adulti indipendentemente dal contenuto di ciò che stavano ascoltando e solo in base ad elementi paraverbali, come ad esempio il tono della voce.

Un’osservazione interessante, scrivono gli autori dello studio, è che sembra esserci una evidente tendenza ad associare il canto, rispetto al parlato, alla comunicazione rivolta ai bambini piuttosto che a quella rivolta agli adulti. Un pattern che potrebbe essere coerente con le teorie che attribuiscono al canto e alla musica in generale un ruolo particolare nella crescita e nell’apprendimento da parte dei bambini.

Le limitazioni dello studio

Gli stessi autori riconoscono che lo studio presenta alcuni limiti da tenere in considerazione. Per esempio, per quanto ampio e variegato fosse il campione di partecipanti, questo non è rappresentativo dell’intera specie umana. Per generalizzare le conclusioni, lo studio dovrebbe quindi essere allargato ulteriormente. Inoltre, le vocalizzazioni registrate non sono state prodotte spontaneamente dai partecipanti ma su richiesta da parte dei ricercatori, fatto che può averne influenzato le caratteristiche. Allo stesso tempo, il fatto stesso che le registrazioni siano state effettuate in condizioni il più possibile standardizzate avrebbe reso il campione sufficientemente omogeneo da poter essere studiato in modo sistematico.

Riferimenti: Nature Human Behaviour

Credits immagine: David Brooke Martin on Unsplash