L’intelligenza in scatola

    L’Intelligenza Artificiale (IA) è una disciplina propensa a fare promesse. Cominciò Marvin Minsky, uno dei “padri” dell’IA, molti anni fa, quando questa disciplina era ai suoi inizi. Minsky predisse allora che nello spazio di uno o due anni saremmo stati capaci di costruire una macchina in grado di “vedere”, cioè di riconoscere oggetti e scene presentati visivamente.

    Macchine che “vedono” non esistono neppure oggi, almeno nella varietà di condizioni e con l’efficienza con cui gli esseri umani, ma anche gli animali meno sofisticati, riconoscono visivamente oggetti e scene.
    Le promesse sono proseguite negli anni. Presto, si diceva, saremmo stati in grado di costruire macchine che riconoscono le parole pronunciate da qualcuno in modo da poterle trascrivere, che producono linguaggio parlato in modo che suoni “naturale”, che capiscono quello che diciamo e sanno rispondere a tono in modo da poter interagire con loro come facciamo con gli altri esseri umani, cioè usando il linguaggio, che sanno “capire” situazioni e problemi e indicare soluzioni, che sanno insegnare, tradurre da una lingua all’altra, muoversi e agire in un ambiente fisico facendo cose per noi utili senza provocare danni.
    Tutte queste promesse sono state mantenute solo in piccola parte, come attestano i pochi prodotti basati su tecniche di IA disponibili sul mercato. Ma, a parte questo, si ha l’impressione che l’IA si trovi di fronte a ostacoli intrinseci e insormontabili se vuole mantenere la sua grande promessa: riprodurre l’intelligenza umana in un sistema artificiale.

    Per fare oggi un bilancio di questa disciplina bisogna dire chiaramente quale criterio si usa nell’esprimere un giudizio. Uno dei più immediati è quello dei risultati pratici, cioè relativo alle applicazioni che funzionano, vengono effettivamente usate, hanno un mercato.
    Da questo punto di vista qualche risultato è stato ottenuto, anche se le applicazioni pratiche dell’IA sono state di gran lunga sovrastate in questi anni da quelle di altri campi dell’informatica e dell’ingegneria: lo sviluppo dei computer in genere, le reti, la multimedialità, gli ipertesti, la realtà virtuale, o anche l’uso di tecniche statistiche e ingegneristiche più tradizionali.

    Tuttavia, siccome l’IA in sostanza non fa che organizzare in modo esplicito, formale e ordinato le nostre conoscenze, le procedure per recuperarle e usarle, le modalità con cui affrontiamo un problema, ci ragioniamo sopra e prendiamo una decisione, è evidente che ogni avanzamento in questo campo può avere dei vantaggi pratici.
    Se mettiamo tutte queste conoscenze in un computer e ci facciamo aiutare dal computer ad usarle, otteniamo indubbiamente dei guadagni in efficienza. Questo fa parte della generale crescita in termini di organizzazione, esplicitazione dei criteri, affrontamento dei problemi in termini razionali, che caratterizza le società avanzate dell’Occidente e, con la globalizzazione, in misura crescente tutta la Terra.

    Il linguaggio

    Ciò nonostante, le applicazioni pratiche dell’IA sembrano avere dei limiti intrinseci. Prendiamo due esempi, il linguaggio e i robot.
    Dal punto di vista applicativo il linguaggio significa riconoscimento del parlato in modo da poterlo trascrivere, generazione del parlato in modo che suoni naturale, comprensione e produzione del linguaggio, e quindi traduzione automatica, dialogo tra computer e utente, eccetera. In tutti questi settori applicativi il problema sembra essere sempre lo stesso.
    Quello che manca è la capacità di mettere nel computer quello che un essere umano sa sulla realtà, e inserirlo in modo flessibile, rendendolo intrinsecamente capace di generalizzare e creare delle analogie, in grado di completare “buchi” di conoscenza, di resistere al “rumore” e al caso, e in continuo aggiornamento autonomo. In altre parole, renderlo in grado di agire nello stesso modo in cui il sistema nervoso umano, e a dire il vero il sistema nervoso di qualunque animale, acquisisce, conserva e usa le conoscenze sulla realtà.

    Le applicazioni attuali in campo linguistico sfruttano tre cose:
    (a) le proprietà statistiche del linguaggio,
    (b) i modelli formali della linguistica,
    (c) talvolta le conoscenze sulla realtà, che però l’IA inserisce nel computer in modi molto diversi da quelli che caratterizzano le conoscenze presenti nella testa (e nel corpo) di un essere umano.
    Seguendo queste strade, i sistemi di riconoscimento del parlato e di comprensione del linguaggio difficilmente potranno avvicinarsi agli standard di prestazione dei sistemi naturali, che poi sono quelli di un qualunque essere umano.
    Qualcosa di simile vale anche per la generazione di un parlato che sembri naturale, e per la produzione del linguaggio. Un parlato che abbia quelle sfumature emotive che rendono naturale il nostro parlato, e una produzione linguistica che esprima le intenzioni di chi la produce, richiedono infatti sistemi che abbiano scopi autonomi, che siano il risultato di una autonoma storia evolutiva e di sviluppo, e non scopi messi da noi dentro alla macchina, come avviene nell’approccio classico dell’IA.

    I robot

    L’approccio tipico della IA, secondo cui è necessario disegnare e programmare il modello dell’ambiente esterno presente dentro al robot, l’interfaccia sensoriale e motoria del robot con l’ambiente esterno, il modo di mettere insieme modello e informazione corrente, sembra porre limiti insuperabili alla creazione di robot.
    Gli organismi viventi appaiono così flessibili, creativi, ed efficienti nella loro interazione con il mondo perché si costruiscono da soli un modello dell’ambiente esterno e una interfaccia sensoriale e motoria, come risultato di una evoluzione al livello della popolazione e di uno sviluppo/apprendimento al livello dell’individuo.
    Inoltre, i robot sono macchine per le quali l’interazione con il mondo fisico è cruciale; l’IA, al contrario, è specializzata nel nucleo logico dell’intelligenza, lontano dalla materia fisica del corpo e dell’ambiente esterno. La tendenza è insomma quella di vedere anche le interazioni fisiche in modo logico, simbolico; il risultato è che si finisce col far dialogare il mondo fisico dei sensi e dei movimenti con il mondo logico dell’intelligenza “pura”.

    Il valore conoscitivo della IA

    I limiti appena descritti riguardano in realtà ogni applicazione dell’IA, anche quelle nel campo delle conoscenze astratte, del ragionamento, della decisione, della collaborazione tra agenti intelligenti, che attualmente vengono considerate come le più promettenti.
    Modalità “neurali” e non “simboliche” di rappresentazione di conoscenze, autonomia degli scopi e auto-organizzazione, sono proprietà essenziali che fanno la forza e la peculiarità degli organismi viventi, e anche della loro intelligenza. Seguendo strade diverse si possono ottenere alcuni risultati, ma forse bisogna tener conto di limiti non superabili nelle applicazioni.

    Se una valutazione dei risultati pratici dell’IA fa emergere luci e ombre, più chiaro sembra il bilancio se usiamo un altro criterio di valutazione: l’IA ci ha fatto capire meglio cosa è l’intelligenza naturale? Qual è, in altre parole, il valore conoscitivo dell’IA?
    Non è affatto detto che le tecnologie utili, che ci aiutino specificamente nelle nostre attività conoscitive e comunicative, debbano incorporare modelli della nostra intelligenza.
    Questo è dimostrato dall’esplosione recente delle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione, le quali hanno ben poco a che fare con l’IA, ma anche più in generale con la preoccupazione di incorporare intelligenza. Naturalmente, i prodotti tecnologici possono essere costruiti con l’obiettivo di inserirvi elementi di intelligenza. Ma ciò non significa automaticamente che questa forma di intelligenza sia uguale alla nostra. E dunque non sempre questi prodotti, e i principi sui quali sono costruiti, servono a farci capire cosa sia la nostra intelligenza.

    In effetti, se si adotta il criterio del valore conoscitivo, oggi sono in pochi a guardare all’IA come a un modo per capire come funzioni l’intelligenza naturale. Il modello di intelligenza presentato dalla IA è troppo logico, esplicito, rigido, incapace di adattarsi alle circostanze, incapace di vera innovazione, senza storia e senza sviluppo, troppo chiuso in se stesso e poco aperto all’ambiente esterno, e lascia fuori troppi aspetti del nostro comportamento e della nostra mente per poter dirci qualcosa di interessante sulla nostra intelligenza.
    L’IA appare sempre di più come una estensione tecnologica delle componenti più razionali, ordinatrici, organizzatrici, pianificatrici, della cultura occidentale, piuttosto che uno strumento per capire la natura della mente umana.
    Se dunque le applicazioni dell’IA segnano il passo e trovano dei limiti difficilmente superabili, e se questa disciplina serve a poco quando si tratta di capire l’intelligenza naturale, forse questo è dovuto al fatto che l’IA ha finora preso delle strade sbagliate.

    Le strade sbagliate

    Uno degli errori commessi dalla IA è quella di aver ignorato le basi biologiche dell’intelligenza. Questo significa prima di tutto non aver tenuto conto delle caratteristiche strutturali e funzionali del sistema nervoso, cioè di quel sistema naturale che fino ad oggi sembra essere l’unico in grado di esibire intelligenza.
    Il sistema nervoso è una macchina fisica che funziona in modo puramente quantitativo, sulla base di leggi di causa e effetto. Un sistema di IA è una macchina virtuale che funziona manipolando simboli sulla base di regole anch’esse espresse mediante simboli.
    Da un lato ci sono discipline come la fisica, la matematica, la biologia e le neuroscienze. Dall’altro la logica e l’informatica. Bastano la logica e l’informatica per capire l’intelligenza e per costruire sistemi artificiali intelligenti? Forse una comprensione superficiale e limitata dell’intelligenza naturale è possibile interpretando l’intelligenza come manipolazione di simboli. Ma una comprensione più profonda e completa richiede che si vada a vedere sotto ai simboli, alle strutture e ai processi fisici del sistema nervoso.

    Ignorare le basi biologiche dell’intelligenza non significa soltanto ignorare il cervello. Significa anche ignorare il resto del corpo. Il corpo degli esseri umani ha una forma fisica, delle dimensioni, una disposizione degli organi di senso e di quelli motori. Dentro al corpo, poi, oltre al sistema nervoso, ci sono altri organi e altri sistemi: da quello endocrino-ormonale a quello immunitario, e poi il metabolismo, la circolazione del sangue, i sistemi motivazionali e così via.
    Tutti organi e sistemi che palesamente hanno a che fare con il comportamento, con le attività mentali, con gli stati emotivi. L’intelligenza umana, anche se gli esseri umani amano considerarla “superiore” e razionale, non è indipendente da tutto questo.

    E allora possiamo ignorare il corpo quando ci occupiamo di intelligenza?
    Ignorare le basi biologiche dell’intelligenza significa anche ignorare la storia dell’intelligenza umana, anzi le diverse storie. Una di queste è quella dell’evoluzione. L’intelligenza di un individuo emerge sulla base di un corredo genetico che l’individuo ha ereditato dai suoi genitori e che rappresenta l’ultimo atto (al momento) di una lunga storia evolutiva di adattamenti all’ambiente, di trasformazioni talvolta graduali talvolta rapide e improvvise, di emergenza da forme non umane di intelligenza.
    Possiamo ignorare questa storia e sperare ugualmente di capire e poter riprodurre la nostra intelligenza in una macchina?
    Alle radici dell’intelligenza umana adulta (quella che l’IA vuole riprodurre) vi è poi la storia dell’individuo, del suo sviluppo dal concepimento alla maturità. In questo caso, ad essere ignorato è il modo in cui l’informazione genetica ereditata dai genitori è rappresentata fisicamente nel DNA, e come questa informazione, in interazione costante con quella presente nell’ambiente esterno, costruisca gradualmente le successive forme fenotipiche dell’individuo, gli stadi del suo sviluppo.

    Se poi ci interessa specificamente l’intelligenza degli esseri umani, c’è una terza storia che non si può ignorare, e che porta fuori dalla biologia.
    Come quella di tutti gli altri animali, l’intelligenza umana si costruisce anche attraverso scambi continui con l’ambiente esterno. Anzi per gli esseri umani il ruolo dell’ambiente esterno nella formazione dell’intelligenza, di quello che l’individuo sa e sa fare, appare molto più importante che per qualunque altro animale. Ma questo non basta. Gli esseri umani hanno un pattern di adattamento all’ambiente esterno molto particolare, diverso da quello degli altri animali: invece di adattarsi all’ambiente esterno così com’è, lo modificano in modi che, nel corso della storia degli ultimi 10.000 anni, sono diventati sempre più radicali.
    Queste modifiche dell’ambiente esterno – controllo dell’ambiente naturale, edifici e altre costruzioni, artefatti tecnologici, sistemi di rappresentazione su vari supporti fisici, procedure e organizzazioni – sono ereditate da una generazione alla successiva in modo selettivo (alcune varianti vengono riprodotte, altre no) e con l’aggiunta costante di nuove varianti. Se l’ambiente in cui vivono gli esseri umani cambia e ha una storia, e l’intelligenza di un individuo prende forma interagendo con le “cose che ci fanno intelligenti” (come dice il titolo di un libro di Donald Norman), allora possiamo ignorare la storia culturale, tecnologica, sociale, degli esseri umani, se vogliamo capire la loro intelligenza?

    Le strade sbagliate prese dall’IA appaiono oggi più evidenti di un tempo. Non solo perché le scienze biologiche hanno fatto progressi tali da non poter essere ignorati, ma anche perché recentemente sono emersi modelli del comportamento e della mente che si muovono in direzioni opposte a quelle dell’IA.
    La ragione per cui questi nuovi modelli rappresentano una sfida per l’IA è che anch’essi sono realizzati sul computer: sono quindi modelli di simulazione. Parliamo di modelli di simulazione perché l’espressione “modello computazionale”, quando è applicata alla mente e all’intelligenza, appare fortemente ambigua. Un modello computazionale dell’intelligenza può infatti significare due cose. Può significare semplicemente che il modello viene tradotto in un programma di computer, e in questo caso l’intelligenza è simulata dalla macchina.
    Oppure può sottintendere un modello basato sull’idea che la mente o l’intelligenza funzioni come un computer, sia come un computer, o addirittura sia un computer; in questo caso si concepisce l’intelligenza come un sistema di simboli e di trasformazioni di simboli.
    La differenza è importante perché buona parte della ricerca degli ultimi decenni sulla mente e sul comportamento, ad esempio in psicologia, in linguistica, in economia, è partita dall’idea che la mente funzioni come un computer. I nuovi modelli emersi di recente si limitano invece a usare il computer come strumento di simulazione, come del resto oggi fa la maggior parte delle discipline scientifiche avanzate, ma sono esplicitamente contrari all’idea che la mente funzioni come un computer. I nuovi modelli computazionali della mente, dunque, sono computazionali nel primo senso, non nel secondo.

    Le reti neurali

    Questi nuovi modelli sono le reti neurali, gli algoritmi genetici, la Vita Artificiale.
    Le reti neurali sono modelli ispirati alla struttura e al modo di funzionare del sistema nervoso. Una rete neurale è formata da un certo numero di unità simili a cellule nervose (i neuroni) che si influenzano tra loro attraverso connessioni simili alle giunzioni sinaptiche tra neuroni. Il comportamento complessivo di una rete neurale, risultante dalle interazioni locali tra neuroni ma non predicibile a partire da queste interazioni, è ciò che chiamiamo mente o intelligenza.

    Gli algoritmi genetici sono modelli ispirati all’evoluzione biologica. Una popolazione di individui, ad esempio di reti neurali, uno diverso dall’altro, viene valutata per la capacità di ogni individuo di risolvere un certo problema o di soddisfare un certo criterio. Gli individui meglio adattati si riproducono, cioè generano delle copie di se stessi con l’aggiunta di variabilità dovuta a dei cambiamenti casuali (mutazioni genetiche) e alla ricombinazione di parti di un individuo e di parti di un secondo individuo (riproduzione sessuale). Riproduzione selettiva e aggiunta costante di variabilità portano all’emergere di caratteristiche inizialmente assenti nella popolazione e all’aumento della capacità di risolvere il problema o di soddisfare il criterio.

    La Vita Artificiale comprende le reti neurali e gli algoritmi genetici ma si estende alla simulazione di ogni aspetto del mondo vivente, dalle molecole alle cellule, dagli organi agli organismi, dalle popolazioni e società di organismi agli ecosistemi formati da organismi diversi e dall’ambiente non biologico, e di fenomeni come la riproduzione, la crescita e lo sviluppo, il comportamento e l’apprendimento, l’evoluzione biologica e quella sociale, culturale e tecnologica.
    I nuovi modelli di cui abbiamo parlato debbono affrontare un enorme varietà e complessità di fenomeni e di evidenze empiriche, e sono ancora all’inizio. Se li valutiamo in termini di capacità di rendere più comprensibile la natura dell’intelligenza umana adulta (e si direbbe anche maschile, tipica della cultura occidentale, eccetera), bisogna riconoscere che molti aspetti di questa intelligenza ancora sfuggono a questi modelli.
    Finora, si direbbe, essi sono stati modelli della Non-IA, cioè di comportamenti semplici di organismi semplici. Tuttavia essi fanno intravedere modi di riprodurre intelligenza in un sistema artificiale che garantiscano che questa intelligenza abbia una serie di caratteristiche cruciali dell’intelligenza naturale, e cioè flessibilità, capacità di adattamento, capacità di innovare, collegamento con le componenti motivazionali e emotive del comportamento, storicità, apertura all’ambiente esterno, auto-organizzazione. I nuovi modelli fanno meno promesse dell’IA, anche perché i loro obiettivi sono prevalentemente conoscitivi e non applicativi. Questo non significa che da essi non possano emergere possibilità applicative in grado di superare i limiti delle attuali tecnologie dell’informazione e della comunicazione.

    IA, un bilancio

    Un bilancio dell’IA non può ignorare una valutazione più complessiva, più generalmente culturale, di questa disciplina. Da questo punto di vista l’IA, così come gran parte della ricerca sulla mente e sul comportamento della seconda metà del XX secolo (ma con profonde radici nel passato, specialmente nella filosofia del passato), appare invecchiata, fuori dello spirito dei tempi, incapace di innovazione culturale prima che scientifica e tecnologica.

    Vi è un contrasto che colpisce tra le valutazioni interne dell’IA, quelle fatte dagli stessi cultori della disciplina, e quelle esterne, da qualunque parte esse provengano.
    Le prime sono spesso entusiaste, se non trionfalistiche. Le seconde deluse e critiche. Perché? Una risposta è che certe volte chi fa IA sembra quasi voler vendere un prodotto commerciale – e questo spiega per esempio perché sotto l’etichetta “IA” vengano messe insieme un po’ alla rinfusa tante cose diverse, senza analisi approfondite, per mostrare il carattere espansivo e, ancora una volta, le promesse della disciplina (si veda ad esempio uno scritto di Jon Doyle e di Thomas Dean intitolato Strategic directions in Artificial Intelligence).

    Un’altra ipotesi è che dentro all’IA si guardi con un po’ di ansia al futuro della disciplina e si risponda a quest’ansia con atteggiamenti di sicurezza e aggressività. Ma la risposta più profonda è probabilmente un’altra. Se le valutazioni interne e quelle esterne dell’IA appaiono oggi così divaricate, le ragioni vanno cercate nel gap che si è creato tra questa disciplina e il mondo esterno. L’IA sembra ancora appartenere al mondo della modernità trionfante e del progresso inevitabile associato al dominio esclusivo della razionalità. Il mondo fuori ha più dubbi.

    (Questo testo è stato pubblicato sul numero 2/97 della rivista Sapere)

     

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