L’Onu metta al bando le mutilazioni genitali femminili

È venuta a spiegarci, ancora una volta, che le mutilazioni genitali femminili (MGF) non hanno niente a che vedere con la religione, che non c’è testo sacro né cristiano, né musulmano, né ebreo che le imponga, che i leader religiosi, i santoni, gli stregoni che obbligano le bambine delle proprie comunità a sottoporsi a questo violento rituale lo fanno per un unico scopo: garantire agli uomini il controllo sulle donne. Lo aveva già fatto con il suo libro “Mutilata”, uscito in francese nel 2005 e in italiano l’anno dopo, dove raccontava la sua vita a partire dal momento cruciale della salindé, la cerimonia della “purificazione” a cui tutte le femmine dell’etnia senegalese soninké devono sottoporsi se non vogliono restare senza marito. Che in Africa significa una condanna definitiva all’emarginazione. 

Ma oggi Khadi Koita, fondatrice e presidente dell’Associazione “La palabre” e di Euronet, intervenuta alla tavola rotonda organizzata a Roma dall’associazione Non c’è Pace Senza Giustizia insieme ad altre tre attiviste del movimento africano contro le MGF -Mariam Lamizana (Senegal), Ndeye Soukéye Guye, (Senegal), Marie Rose Sawadogo (Burkina Faso) – porta con sé una speranza nuova, impensabile fino a poco tempo fa: ottenere la messa al bando universale delle mutilazioni genitali femminili. 

Un sogno, quello di Koita e delle altre rappresentanti dei movimenti africani, condiviso e coltivato anche da Emma Bonino, fondatrice di Non C’è Pace Senza Giustizia, e Daniela Colombo, presidente dell’Aidos (Associazione italiana Donne per lo sviluppo), che si stanno battendo per ottenere dalla 65a Assemblea Generale delle Nazioni Unite una Risoluzione che riconosca le mutilazioni genitali femminili come una grave violazione dei diritti umani e che sancisca finalmente il diritto delle donne di tutto il mondo di preservare la loro integrità fisica e psichica (qui l’appello in Rete per sostenere la petizione).

L’ obiettivo forse non è proprio così “a portata di mano”, come ottimisticamente afferma il titolo dato al meeeting di Roma, visto che la delegazione italiana reduce dai colloqui preliminari dei giorni scorsi a New York ha già incontrato i primi ostacoli e avvertito la netta sensazione che per avere un testo condiviso da portare in aula entro dicembre bisognerà giocare al ribasso. Non è questo  ovviamente che si vuole: un compromesso debole  non accontenterebbe nessuno.

Oggi, infatti, dopo decenni di attività sul campo per informare ed educare le popolazioni locali, dopo aver vagato da un villaggio all’altro mostrando agli uomini, ignari di quello che le loro mogli sono costrette a subire, i filmati della tortura a cui sono sottoposte da bambine, dopo avere  ottenuto in 19 paesi africani sui 28 in cui la pratica è diffusa una legge che la sanziona e un protocollo (Maputo 2003) che invita gli stati aderenti a vietare le MGF, questo movimento internazionale pretende qualcosa di più.  “Oggi serve più che mai una Risoluzione dell’Onu condivisa da tutti i paesi che renda giustizia alle donne e dia più poteri agli stati che vogliono imporre la proibizione” dice Koita. “Solo così, inoltre – prosegue – si porrebbe fine ai viaggi da un paese all’altro che le famiglie intraprendono per eludere le leggi del proprio stato. Una violazione di diritti umani non conosce confini”. 

La pratica dell’escissione riguarda una trentina di stati africani, in particolare Egitto, Mali, Eritrea, Somalia, dove la legge che la aboliva, in vigore trent’anni fa, è oggi lettera morta e dove il 20% delle donne sottoposte alla mutilazione non sopravvive. Neanche in Sierra Leone, Sudan Gambia, Liberia, Congo, Camerun c’è una legge proibitiva. Succede quindi spesso che le ragazze del Burkina Faso, per esempio, dove le mutilazioni sono vietate, vengano portate in Mali dove il divieto non esiste.  Oltre che in Africa, la pratica è diffusa nello Yemen, nel nord dell’Iraq, in Malesia, in Indonesia. Si calcola che ogni anno due milioni di bambine siano sottoposte ad infibulazione. In quasi tutti i casi sono le nonne ad organizzare il rituale e il perché è chiaro: “Nessuna madre, anche se avesse un cuore di pietra, riuscirebbe a sopportare la vista di quello che faranno a sua figlia e soprattutto le sue urla” spiega Koita.

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