Perché la “luce ultraveloce” ha vinto il Nobel per la fisica 2023

Nobel fisica 2023

Immaginate un colibrì che sbatte le ali alla frequenza di circa 90 battiti al secondo – è il più veloce battito d’ali al mondo, in effetti – oppure le pale di un ventilatore che girano molto rapidamente. A occhio nudo non sareste certamente in grado di distinguere la singola ala che sbatte, né la singola pala che gira, e vedreste piuttosto soltanto un oggetto indefinito. Ma supponiamo che aveste in dotazione una macchina fotografica in grado di aprire l’otturatore (e accendere il flash) per un novantesimo di secondo: una foto scattata in questo modo vi consentirebbe, questa volta, di “immortalare” l’ala o la pala, e di apprezzarne tutti i dettagli. Sostituite colibrì e ventilatore con atomi e molecole, e ali e pale con elettroni: il premio Nobel per la fisica di quest’anno, appena assegnato a Pierre Agostini, Ferenc Krausz e Anne L’Huillier ha a che fare – semplificando molto, per forza di cose – con tutto questo. I tre scienziati, infatti, sono stati insigniti dell’onorificenza per i loro studi che hanno consentito di emettere lampi di luce così brevi da riuscire a immortalare, a “immobilizzare”, il moto degli elettroni all’interno degli atomi e delle molecole, consentendo così di studiarne le caratteristiche con un livello di dettaglio e una risoluzione senza precedenti.

Le scale temporali e di velocità del mondo atomico e subatomico, effettivamente, sono molto (molto) minori di quelle del mondo macroscopico. L’unità temporale “intrinseca” dell’atomo è di circa 24 attosecondi, e un attosecondo corrisponde a 10-18 secondi: un tempo davvero brevissimo, se si pensa che (all’incirca) ci sono tanti attosecondi in un secondo quanti secondi in tutta la vita dell’Universo, dal Big Bang a oggi. D’altra parte, fino a non molto tempo fa era possibile produrre impulsi di luce (i “flash” della macchina fotografica di cui sopra) non più brevi di una scala temporale dell’ordine dei femtosecondi, ovvero 10-15 secondi: anche questi molto veloci, certo, ma ben tre ordini di grandezza più lunghi rispetto alle scale temporali subatomiche. Un flash ancora insufficiente per apprezzare i movimenti e le dinamiche degli elettroni. Questa distanza appariva così incolmabile che nel 1925 Werner Heisenberg, uno dei padri della meccanica quantistica, suggerì che il periodo di rivoluzione e di rotazione dell’elettrone dovessero considerarsi a tutti gli effetti “inosservabili”, e di provare invece a stabilire una “nuova” meccanica quantistica in cui si tenessero in considerazione soltanto le relazioni tra quantità osservabili.

I lavori di Agostini, Krausz e L’Huillier hanno cambiato questo paradigma. Ma “rompere” la barriera del femtosecondo non è stato affatto facile – e difatti è stata un’impresa da Nobel. Le basi della ricerca che ha portato a questo risultato sono state poste negli anni ottanta, quando diversi gruppi di ricerca sono riusciti a produrre ioni atomici altamente carichi, con pochi elettroni o addirittura senza alcun elettrone, mostrando che (almeno teoricamente) questo processo di ionizzazione può portare alla produzione di impulsi di luce estremamente brevi, dell’ordine, per l’appunto, degli attosecondi. Nel 1987, in particolare, L’Huillier ha scoperto che illuminando un gas nobile con luce laser gli elettroni degli atomi del gas assorbivano parte dell’energia del laser e la riemettevano in forma di luce “complessa”, ossia contenente onde luminose a diverse lunghezze d’onda, anche molto brevi. Verso la metà degli anni novanta il modello teorico era stato definito, così come tutti i passi sperimentali per la realizzazione pratica. C’era ancora bisogno, però, di un sistema per misurare la durata di questi impulsi e di un laser in grado di produrli: a occuparsene è stato il gruppo di Agostini, che sulla scorta delle scoperte di L’Huillier ha messo a punto questi strumenti e nel 2001 è riuscito a produrre (e studiare) una serie di impulsi di luce consecutivi della durata di 250 attosecondi ciascuno; il gruppo di Krausz, dal canto suo, lavorando con un setup sperimentale diverso, è riuscito a isolare un singolo impulso di luce della durata di 650 attosecondi.

“Alla scala temporale degli attosecondi – ha spiegato Olle Eriksson, fisico della Uppsaala University, in Svezia, e membro della commissione che ha assegnato il Nobel – è come se il tempo fosse fermo, e tutto fosse fermo. Tutto, eccetto gli elettroni. Si può pensare a un atomo come a una zolletta di zucchero attorno alla quale volano delle mosche, ossia gli elettroni. Alla scala temporale degli attosecondi si vedono soltanto le mosche che volano”. Più precisamente, queste tecniche non consentono di “vedere” gli elettroni, ma funzionano come una luce stroboscopica che li illumina mentre si muovono, consentendo così di studiarli nel dettaglio. A cosa serve tutto questo? Delle applicazioni di base (studio e caratterizzazione degli elettroni) abbiamo già detto; ma c’è dell’altro: “Ci sono applicazioni molto più pratiche in arrivo – ha commentato la stessa L’Huillier – La luce che produciamo è utile anche per l’industria dei semiconduttori, come strumento di imaging”. Ovvero ricadute nel campo della diagnostica medica, per esempio per identificare molecole diverse – nella microelettronica e in chissà cos’altro.

Via: Wired.it
Immagine: Solen Feyissa/Unsplash