Luci e ombre del gene che cura

Il 29 settembre scorso Jesse Gelsinger, un diciottenne di Tucson in Arizona, è morto a causa degli effetti collaterali di una terapia genica. Lo ammettono, solamente ora, i ricercatori dell’Università della Pennsylvania (http://www.upenn.edu/) di Philadelphia che lo avevano in cura. La notizia è rimbalzata in tutto il mondo: si tratta infatti del primo decesso in cui sono state accertate le responsabilità di questo trattamento ancora in via di sperimentazione. Jesse era malato, fin dalla nascita, di una rara malattia del fegato, la deficienza della transcarbamilasi dell’ornitina, che teneva sotto controllo grazie a dei farmaci. Per guarire il ragazzo aveva poi deciso di sottoporsi alle tecniche di terapia genica. Il trattamento prevedeva un’iniezione, direttamente nel fegato, di virus del raffreddore (adenovirus) che avrebbero dovuto trasportare i geni correttivi. I virus, però, hanno provocato una reazione immunitaria nell’organismo del ragazzo che ha bloccato il funzionamento degli organi vitali. La sua morte, secondo i ricercatori, è stata quindi causata dagli ancora imprevedibili effetti collaterali del trattamento, e non da un errore umano.

Il caso di Jesse ha riacceso le polemiche sull’opportunità di sperimentare la terapia genica solo su soggetti non gravemente malati. Sulla vicenda è intervenuto addirittura il National Institutes of Health (http://www.nih.gov) invitando i propri ricercatori a fare controlli più severi durante gli esperimenti. Ad alimentare la discussione ci ha pensato anche il Washington Post che, il 3 novembre scorso, ha pubblicato un articolo in cui si affermava che, negli ultimi venti mesi, lo stesso Nih non era stato informato di altri sei casi analoghi a quello del giovane di Tucson. Il quotidiano della capitale statunitense ha inoltre pubblicato gli esiti negativi di alcune ricerche fatte alcuni anni fa proprio dal team dall’Università della Pennsylvania: numerose scimmie sottoposte a questa terapia erano morte a causa degli stessi disturbi che hanno colpito Jesse.

Ma che cos’è la terapia genica? È la nuova risposta, ancora in gran parte da verificare, che la ricerca medica sta cercando alla cura delle malattie ereditarie. Una volta individuato il gene malato responsabile di una di queste patologie, si procede alla sua sostituzione con una copia sana. Per trasportare i geni correttivi direttamente nel nucleo della cellula malata bisogna però ricorrere a dei vettori. E attualmente sono proprio i virus, e in particolare quelli del raffreddore, le navette utilizzate per far arrivare il gene a destinazione. Ma gli effetti scatenati da questi agenti patogeni una volta inseriti in un organismo malato sono ancora poco prevedibili. Per capire quale sia lo stato attuale della ricerca e i rischi connessi a tale trattamento Galileo ha intervistato Bruno Dallapiccola, presidente della Società Italiana di Genetica Umana (http://sigu.uniroma2.it) e direttore della cattedra di genetica medica all’Università La Sapienza di Roma.

Quali sono i rischi della terapia genica?

“Innanzitutto bisogna dire che non esistono al mondo casi di guarigione dovuti a questi trattamenti”, risponde il genetista italiano. “Per questo motivo chi decide di sottoporsi alla terapia genica per sopravvivere deve assolutamente assumere altri farmaci. Attualmente i veicoli utilizzati per trasportare i geni sani all’interno di una cellula malata sono i virus. Ma ci sono delle controindicazioni. Il Dna dei virus, infatti, non ha la stessa struttura di quello delle cellule e perciò, nel lungo periodo, ci possono essere delle complicazioni”.

Esistono altri metodi per trasportare i geni?

“Sì, ma non sono efficaci. Per esempio i liposomi, delle palline di grasso che grazie al fenomeno dell’endocitosi, vengono inghiottite dal sistema cellulare. Questo metodo è totalmente innocuo per l’organismo ma i liposomi non sempre riescono a compiere il loro lavoro in modo completo”.

Qual è, allora, il futuro della terapia genica?

“La strada da percorrere è quella della cosiddetta “ricombinazione omologa”, il procedimento tipico della maturazione dei gameti, le cellule germinali proprie degli organismi a riproduzione sessuale. Tale tecnica, che però non può essere utilizzata sempre, prevede la creazione di copie sane di pezzi malati del Dna che non vengono modificati ma sostituiti. Infatti, introducendo migliaia di queste sequenze nei sistemi cellulari alterati, può accadere che queste si uniscano occasionalmente con la parte corrispondente del Dna malato. Ciò consente uno scambio spontaneo di dati che permette alla sequenza sana di sostituire quella malata. Finora però la ricombinazione omologa è stata sperimentata con ottimi risultati solamente in provetta”.

Ci sono differenze nel campo della ricerca tra Europa e Stati Uniti?

“Sì, e gli americani sono decisamente avanti. Basti pensare che il 95 per cento dei protocolli di terapia genica nel mondo sono statunitensi. Un dato significativo se si considera che negli Usa, a causa delle molte leggi che tutelano la privacy del cittadino, le sperimentazioni sono più difficili da realizzare. Ciò vuol dire che esiste una grande differenza di capitali investiti. In particolare in Italia, dove il lavoro principale si svolge al San Raffaele di Milano, la ricerca è penalizzata dal sistema sanitario che stanzia pochissimi fondi”.

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