Malaria dalle sette vite

Questo è un anno di anniversari per la malaria: è passato esattamente un secolo dalla scoperta dei meccanismi di trasmissione della malattia, e cinquanta anni dall’ultimo caso di morte per infezione contratta in Italia. Due buoni motivi per festeggiare, ma con riserva, e solo dentro i confini dell’Europa temperata. Infatti, non solo la malaria è ancora una delle malattie più diffuse nel mondo e tra le principali cause di morte, ma si sta riaffacciando anche in paesi, come l’Italia, la Francia o l’Inghilterra, dove la trasmissione dell’infezione era stata interrotta da tempo. Il parassita responsabile della malattia arriva da lontano: trasportato dalle zanzare rimaste prigioniere nei bagagli dei viaggiatori di ritorno dai paesi tropicali, o nel sangue di chi, per turismo o per necessità, varca le frontiere dell’Europa dopo essere stato punto dall’insetto infettante. Il “rischio malaria in Italia e nel mondo”, tutt’altro che neutralizzato, è stato recentemente al centro di una tavola rotonda ospitata dall’Università di Camerino, alla quale hanno partecipato alcuni tra i maggiori esperti italiani.

La malaria è provocata da un parassita, il plasmodio – il tipo “falciparum” è il più pericoloso – che viene trasferito da un individuo all’altro attraverso la puntura di una particolare specie di zanzara, l’Anofeles, che lo inietta nel sangue umano insieme alla propria saliva. I sintomi caratteristici di questa malattia sono i periodici attacchi di brividi e febbre, sudorazione e mal di testa. La forma più grave, la malaria “cerebrale”, può portare alla morte se non è curata in tempo.

A tutt’oggi, due miliardi di persone vivono in zone malariche, quattrocento milioni si ammalano ogni anno e oltre due milioni muoiono per l’infezione. I più colpiti sono i paesi del Sud est asiatico, dell’America latina e, soprattutto dell’Africa sub-sahariana. Ma se eradicare la malattia in queste regioni è ancora un obiettivo lontano, che comporta la messa in gioco di strategie sociosanitarie differenti a seconda delle caratteristiche della malattia nei diversi paesi, alle nostre latitudini l’antico “morbo delle paludi” si presenta sotto nuove vesti. Un tempo le vittime designate erano soprattutto i contadini poveri delle pianure e delle coste meridionali della penisola, che non potevano trasferirsi durante la stagione calda sulle colline a riparo dalle zanzare. Oggi quelli più a rischio sono i viaggiatori benestanti, che contraggono l’infezione durante le vacanze ai tropici.

“Effettivamente, negli ultimi decenni i casi di malaria in Europa sono notevolmente aumentati” riconosce Giancarlo Majori, direttore dell’Istituto di Parassitologia dell’Istituto superiore di sanità, durante il convegno di Camerino. “E questo è dovuto sia al turismo sia all’aumento del numero di immigrati provenienti da paesi dove la malaria è endemica. In Italia, per esempio, in trent’anni il numero di infezioni è aumentato di quasi otto volte”. Ma non c’è da allarmarsi, avverte Majori: alle nostre latitudini e con le nostre strutture sanitarie il rischio che la malaria possa tornare a essere un reale pericolo è praticamente nullo.

Esistono tuttavia regioni “instabili”, che per clima e condizioni sociali si trovano a metà strada tra i paesi tropicali dove la malattia è endemica e quelli dove l’infezione è stata definitivamente arrestata. In questi paesi l’aumento delle immigrazioni e l’alterazione degli equilibri eco-sociali in generale, può essere cruciale. Secondo Stanislaw Tomaszunas, direttore del Centro per la salute marittima dell’Oms e professore di medicina tropicale all’Università di Gdynia, in Polonia, circa il 33% della popolazione mondiale vive in queste zone a rischio. “Uno di questi paesi è la Turchia” ricorda il professore polacco, in questi giorni a Roma. “Qui, eccetto alcune piccole zone circoscritte, la malattia era scomparsa da tempo. Oggi invece i casi di infezione si aggirano intorno ai 20-30 mila: con la recente ondata migratoria di migliaia di persone in cerca di lavoro dall’ex-Urss, la trasmissione si è riattivata anche nelle zone dove si era completamente interrotta. In regioni come queste, in mancanza di un buon monitoraggio e di misure sanitarie adeguate, la malaria potrebbe tornare ad essere una minaccia”.

“In generale, non possiamo nemmeno escludere che la tropicalizzazione di aree attualmente a clima temperato possa creare condizioni favorevoli al ritorno della malattia: è stato calcolato che un aumento della temperatura media di 2 °C incrementerebbe di otto volte il pericolo di trasmissione”. Ma questo, riconosce Tomaszunas, è un rischio puramente teorico. “Il vero problema, nelle zone temperate, è quello della malaria importata, soprattutto dai turisti e dai militari di ritorno da zone infette. Dunque, la strategia migliore per questi inconsapevoli “vettori” umani è di informarsi su quali siano i luoghi e i periodi a rischio, adottare precauzioni ad hoc e, in caso di malattia, sottoporsi per tempo a cure adeguate”.

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