Vivono con un gene difettoso, che non produce una proteina per la coagulazione del sangue. Una mutazione recessiva del cromosoma X, che colpisce quasi esclusivamente persone di sesso maschile, mentre le donne sono in genere portatrici sane. Gli emofilici, settemila in Italia, sono affetti da una rara malattia congenita, che li accompagna per tutta la vita. Non è guaribile ma, oggi e ormai da decenni, sono disponibili cure che consentono di vivere una vita normale. O quasi. Perché le difficoltà quotidiane che deve affrontare una persona affetta da emofilia non sono poche. C’è chi una volta al mese è costretto a percorrere centinaia di chilometri per raggiungere il Centro Emofilia più vicino e chi sceglie di trasferirsi al Nord con l’intera famiglia, pur di assicurarsi a un proprio familiare le cure migliori. In Italia infatti nascere in una regione piuttosto che in un’altra, dal punto di vista sanitario può fare la differenza e incidere notevolmente sulla qualità della vita. E poi c’è il difficile dialogo con le istituzioni, da cui le associazioni di emofili pretendono precisi provvedimenti, da tempo fermi in lista d’attesa. I malati chiedono infatti di avere voce in una società che lamentano come impreparata, disinformata ed estranea, quando non, in alcuni casi, ostile, nell’accogliere e rispondere adeguatamente ai loro bisogni. A tratteggiare uno spaccato di questa realtà è la ricerca sulla qualità della vita del paziente emofilico presentata lo scorso 18 maggio a Roma in occasione dell’incontro “Emofilia: malattia rara, malattia sociale” promosso dalla Federazione delle Associazioni Emofilici in collaborazione con la Fondazione Paracelso. Un’occasione per mettere sul tavolo e porre all’attenzione dei rappresentanti delle istituzioni tante dibattute questioni che reclamano una risposta. Dagli indennizzi per i danni da trasfusioni, all’impossibilità stabilita per legge di praticare uno sport agonistico, dalla necessità di accedere a cure adeguate, alle perplessità sulle limitazioni in materia di procreazione medicalmente assistita imposte dalla legge 40, sulla quale i cittadini sono chiamati a pronunciarsi il 12-13 giugno prossimi con il referendum.La ricerca, che ha coinvolto 150 intervistati, mette in luce un problema molto sentito da chi soffre di emofilia: il centro specializzato, che oltre a essere un luogo di cura è spesso anche il solo punto di riferimento per il malato, si trova fuori dalla città di residenza per oltre il 60% dei pazienti. E se nel Nord Est la totalità degli intervistati compie meno di 100 chilometri per raggiungerlo, nel Sud c’è un 22 per cento di persone che è obbligata a percorrerne 500. Nel complesso, la misura della disomogenea geografia della salute è che tre pazienti su quattro si dichiarano insoddisfatti dal punto di vista assistenziale e sociale. Ma colpisce anche un altro dato: quasi l’80 per cento degli intervistati ha almeno un motivo di insoddisfazione dal punto di vista legislativo. E qui si tocca un tasto dolente: la legge 210 del 1992, che tutela le persone danneggiate. “Negli anni Settanta furono disponibili per la prima volta derivati del plasma, che hanno permesso agli emofilici di avere una vita attiva e superare le emorragie che davano esiti handicappanti” ricorda Elena Santagostino del Centro Emofilia Angelo Bianchi dell’IRCCS Ospedale Maggiore di Milano. “Ma le cure di allora hanno avuto complicanze drammatiche: la quasi totalità degli emofilici trattati in quegli anni è stata contagiata dal virus dell’epatite C, mentre successivamente molti sono stati colpiti, a causa delle trasfusioni dall virus dell’Hiv. Oggi, l’80-90 per cento di questi pazienti è affetto da epatite cronica da virus C e molti di loro sono soggetti di 30-35 anni, infettati da bambini”.La Federazione delle Associazioni Emofilici si è battuta strenuamente per il miglioramento di quella legge, di ormai 13 anni fa, appoggiando la causa collettiva contro il ministero della Salute per il riconoscimento di un equo indennizzo verso le persone infettate. Nel 2003 il governo ha stanziato i fondi per procedere a una transazione nei confronti di un primo gruppo di ricorrenti, ma ci sono ancora 150 emofilici che pretendono un rimborso. “Cercheremo di fare il possibile”, risponde Giuseppe Palumbo, presidente della Commissione Affari Sociali, sintetizzano la posizione politica in materia: piena disponibilità parlamentare, ma fare promesse, in questo momento nero che l’economia italiana sta attraversando sarebbe un passo falso.Ma ci sono almeno altre due leggi che pesano sulla testa degli emofilici: la prima è quella che esclude la categoria degli emofilici dalla pratica agonistica. E l’altra, tema quanto mai attuale, è la legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita. “Si parla di manipolazione dell’embrione, quando invece si tratta di una diagnosi genetica prima dell’impianto nell’utero dell’embrione, che consentirebbe di vedere se è portatore o meno di una malattia non guaribile”, afferma Andrea Buzzi, presidente dell’Associazione Paracelso. “E, inoltre, l’accesso alle tecniche di fecondazione assistita è concesso solo alle coppie sterili: ma esiste anche anche un’infertilità virologica. Chi è più infertile di chi è affetto da Hiv?”Posizioni condivise anche da Santagostino, che sottolinea come la possibilità di accedere alle tecniche di fecondazione artificiale limiterebbe il danno sia al nascituro sia alla donna e alla famiglia. “Per di più, il paziente emofilico Hiv-positivo ha delle difficoltà per l’adozione, per cui spesso l’unica possibilità di avere un figlio, sano, sarebbe quella di ricorrere alla fecondazione assistita”.