Mamma, perché proprio a noi?

Dove si trovano le parole per spiegare a un figlio cosa significa avere un tumore? Come si racconta a un bambino cosa vuol dire guardarsi allo specchio e vedersi senza capelli, con un corpo mutilato, con i segni della terapia sul volto e la stanchezza nelle ossa? Catherine Thornton, irlandese, queste parole le ha trovate. E le ha scritte in un libro per suo figlio Matthew, sette anni. Il libro, dal titolo “Why Mum? A Small Child Dealing with a Big Problem” (ovvero: perché, mamma è capitato proprio a noi?), pubblicato da Veritas Publications di Dublino, ha ricevuto il premio Nathwani alla V European Breast Cancer Conference di Nizza. Signora Thornton, come comincia la sua storia?“Era il novembre 1999, avevo 45 anni. La diagnosi di tumore al seno è arrivata all’improvviso, senza grandi segni premonitori. Ho fatto la mastectomia, e poi chemioterapia e radioterapia. Non appena avuta la notizia, mi sono posta il problema di cosa dire ai miei figli, di 20, 17 e 7 anni. Ma era per Matthew, il più piccolo, la preoccupazione maggiore. Come spiegargli tutto quello che avremmo dovuto attraversare? Così sono andata in libreria, per cercare qualcosa che mi aiutasse a trovare il modo migliore. Naturalmente c’è tutta una letteratura dedicata a superare il trauma di un lutto in famiglia, o di una separazione, ma non c’era nulla che parlasse della malattia, e soprattutto nulla che fosse rivolto a un bambino”. Perché cercava proprio un libro?“Pensavo che un libro da leggere insieme potesse essere un buon punto di partenza, anche se ovviamente non avrebbe esaurito tutto l’argomento. A volte una storia scritta proprio per un bambino può far capire che i grandi problemi capitano a tutti, e magari fa sentire meno soli sapere che qualcun altro ha avuto le stesse difficoltà. Soprattutto, in quel momento non mi sentivo molto bene, e una cosa già scritta mi avrebbe risparmiato un sacco di fatica. Ma quel libro non c’era”.E così lo ha scritto lei…“Sì, ho cominciato due anni dopo la guarigione. Inizialmente l’ho scritto in prima persona, come un’adulta che racconta la sua esperienza a un bambino. Ma suonava falso. Allora ho pensato che scriverlo direttamente dal punto di vista del bambino lo avrebbe reso più vero. Ho usato il linguaggio di Matthew, i suoi modi di dire, le sue domande. Quando il libro era finito e mi hanno proposto di pubblicarlo, io gli ho chiesto il permesso. E lui mi ha detto ‘ok, forse la mia storia può aiutare qualche altro bambino’”.Come ha trovato le parole per spiegare a suo figlio cosa stava accadendo? “Ho cercato di parlargli in modo chiaro, di rispondere onestamente alle sue domande. Aveva molta voglia di sapere e si vedeva che era preoccupato. D’altra parte i segni della malattia erano evidenti: quando ho cominciato la chemioterapia ho perso i capelli, con la radioterapia mi sentivo terribilmente stanca, e non riuscivo più a giocare con lui, non potevo prendere infezioni e dunque non potevamo vedere gli amici. Trovare le parole giuste non è stato facile. Allora mi sono ricordata quello che mi avevano detto a proposito dell’educazione sessuale: rispondi onestamente a tutte le domande che ti fanno i bambini, ma non cercare di dare spiegazioni che non ti hanno chiesto. Se loro vorranno sapere altro, te lo chiederanno. Se non te lo chiedono, è perché non sono ancora pronti per saperlo”. Qual è stata la cosa più difficile da comunicare? “Inizialmente la parte più difficile da dire riguardava l’operazione, il tempo che avrei dovuto passare in ospedale, e la mastectomia, il fatto che mi avrebbero portato via una parte del mio corpo. Il tumore è stato scoperto a uno stadio molto iniziale, quindi non avevo i segni della malattia: era difficile spiegare che mi avrebbero sottoposto a un intervento, e che per giunta dopo l’intervento sarei stata molto peggio di prima”.Anche perdere i capelli per la chemioterapia è una cosa molto evidente per un bambino.“Sì, forse per me è stata la cosa più difficile, anche in famiglia giravo sempre con la parrucca perché ero in imbarazzo davanti ai miei cari. Però sono riuscita a trasformare anche questo in un gioco: quando suonavano alla porta e io ero senza parrucca, con Matthew facevamo una gara per vedere chi arrivava per primo a prenderla. Insomma, cercavo di coinvolgerlo. Ho capito che i bambini sono più spaventati di non sapere, perché la loro immaginazione è fervida e possono sempre pensare il peggio. Quando lui ha visto che io riuscivo a farmi una ragione di tutto questo, anche lui ha capito che andava tutto bene. ‘Se per mamma e papà è tutto ok, allora anche per me è ok’. E allora ci si poteva anche ridere sopra, e modificare le abitudini di vita senza soffrirne troppo”.Erano cambiate molte cose nella vostra vita?“Sì, quando mi sentivo male non potevo fare tutte quelle cose che facevo abitualmente con lui,e allora cercavo di farle in un modo diverso, oppure di farne altre. Durante la chemioterapia era molto importante fargli capire che per i primi tre quattro giorni dopo l’infusione sarei stata molto male, ma che poi le cose sarebbero migliorate fino all’infusione successiva, e che in quei giorni avremmo potuto fare le cose insieme ma in un modo un po’ diverso dal solito. Così lui si tranquillizzava, sapeva quello che sarebbe successo. Abbiamo cercato di rendere la nostra vita il più normale possibile”.Eppure a volte Matthew era arrabbiato, anche con lei.“Sì, i bambini hanno questa sorta di egoismo. Prima della malattia io stavo a casa tutto il giorno con lui, per scelta. E quando tornava da scuola lo aiutavo a fare i compiti, lo portavo al parco, gli preparavo la cena, insomma mi dedicavo a lui completamente. Per lui era tutto normale e dovuto, naturale come se io fossi parte dell’arredamento di casa. A un certo punto, improvvisamente, non ero più tutta a sua disposizione. Non ero più in grado di fare le cose, quando tornava a casa c’erano amici di famiglia ad accoglierlo, nessuno gli preparava i pranzi speciali, doveva fare i compiti da solo. E allora a volte si chiudeva in un mutismo terribile, e diceva ‘sono arrabbiato con te’, come se fosse colpa mia, perché non ero lì per lui. Ma penso che fosse una reazione giusta e normale”.In che modo questa vicenda ha cambiato suo figlio? “Per certi aspetti credo che sia meno sicuro dei suoi coetanei: ogni volta che mi assento, o non mi sento troppo bene, lui drizza le antenne e mi guarda preoccupato. Ha capito che gli adulti possono ammalarsi e persino morire. E poi di cancro ormai si parla dappertutto, alla televisione, a scuola, ovunque, e lui collega questa malattia a quello che è successo alla mamma. E mi fa ancora molte domande, tutte le volte che vado in ospedale per i controlli mi chiede dove vado. E’ molto attento”.E non crede che sia più forte, ora che questa esperienza è passata?F”orse sì. Da questo punto di vista, lui ha superato una cosa che gli altri non hanno dovuto affrontare. Ora che io sto bene, ha imparato che il cancro può essere sconfitto”.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here