Medicina di genere: è ora di passare alla pratica

Un sistema sanitario capace di promuovere una medicina rispettosa delle differenze tra uomini e donne nella risposta alle malattie e alle terapie, e di tradurla nella pratica clinica. E’ quello che chiedono gli operatori sanitari secondo quanto emerge dalla prima ricerca condotta su decisori, amministratori, medici e farmacisti per verificare la conoscenza della medicina di genere e capire quali siano i margini per introdurla nei percorsi clinici e assistenziali. L’indagine “Conoscenza, rilevanza e prospettive della medicina di genere in Italia” è stata presentata oggi a Roma nel corso di un simposio organizzato dal Gruppo italiano per la salute di genere (GISeG) insieme a Novartis.

“Attuare la medicina di genere significa assicurare migliore salute a tutti, uomini e donne, adulti e bambini, significa raggiungere l’appropriatezza preventiva e terapeutica declinata nel genere. Naturalmente dobbiamo chiedere ai decisori di rivedere le politiche sociali per la donna”, afferma Flavia Franconi, presidente del GISeG. “Questa ricerca, che ha coinvolto specialisti e decisori sanitari, incoraggia la svolta di genere nella sanità italiana: il sistema sanitario si mostra consapevole e pronto ad adottarne i principi”.

Il primo dato che emerge dalla ricerca è che la medicina di genere è ormai conosciuta tra gli operatori sanitari: dimostrano di essere a conoscenza l’86% dei direttori generali e sanitari e l’80% dei farmacisti, ma anche il 77% degli oncologi e il 75% dei neurologi. Stupisce il dato dei cardiologi (che affermano di conoscere le differenze nel 62% dei casi) perché è proprio da questa disciplina che è nata la medicina di genere, ed è quella dove sono maggiori le evidenze di una differenza nella patogenesi, nel decorso della malattia e nella risposta ai farmaci.

Proprio per questo, d’altra parte, interrogati sull’area terapeutica da cui si aspettano maggiori novità dall’introduzione della medicina di genere gli operatori rispondono nell’85% nel campo delle malattie cardiovascolari, nel 79,3% nel’ictus, seguiti dalla sclerosi multipla (73,7%). Se dalle aree terapeutiche si passa poi a valutare gli elementi dell’assistenza e della cura che possono (e dovrebbero) essere maggiormente modificati da un approccio rispettoso delle differenze, emerge la necessità di un intervento a largo raggio: gli intervistati si aspettano un approccio di genere nella prevenzione (83%), nella terapia farmacologica (per esempio, con una maggiore attenzione a valutare la diversa efficacia e incidenza di effetti collaterali dei farmaci tra uomini e donne) e nei disegni degli studi clinici (77%).

Cosa bisogna fare allora per passare dalla teoria alla pratica? Secondo gli intervistati le istituzioni devono promuovere principalmente la formazione, favorendo l’inserimento della medicina di genere nei percorsi universitari di medici, infermieri, farmacisti (90% del campione), ma anche per modificare le linee guida esistenti o produrne di nuove, per migliorare l’appropriatezza assistenziale.

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