Miraggio parità

Quello appena iniziato è l’anno europeo delle pari opportunità. Un’iniziativa promossa dal Consiglio e dal Parlamento europeo per riflettere su tutti i tipi di discriminazioni, quelle basate sulla razza, sulla religione, sulla disabilità, sugli orientamenti sessuali, per finire con le discriminazioni basate sul genere. Una sensibilizzazione quanto mai opportuna in Italia: da noi le donne sono meno presenti in politica degli uomini, hanno meno accesso al mercato del lavoro e guadagnano di meno. È quanto emerge da uno studio di Valeria Costantini e Salvatore Monni, economisti dell’Università di Roma Tre che hanno analizzato le disparità di genere attraverso il “paradigma dello sviluppo umano”, definito dal Programma per lo sviluppo delle Nazioni Unite (Undp) come il processo in grado di determinare l’ampliamento delle opportunità e delle scelte a disposizione degli individui. Un fattore di crescita, quindi, che non tiene in considerazione solo il reddito ma anche l’espansione delle libertà.

“Usando l’indice di sviluppo umano intendiamo soprattutto mettere al centro dell’analisi l’individuo, che non è più mezzo ma fine”, spiega Salvatore Monni. “Nel nostro lavoro abbiamo calcolato al di là dei semplici dati aggregati sulla crescita economica, il Pil pro capite, una serie di indicatori compositi che ci consentissero di evidenziare il livello di sviluppo umano per le regioni italiane”. I ricercatori hanno utilizzato quattro dei cinque indici prodotti dal rapporto annuale dell’Undp: l’indice di sviluppo umano (Isu), che contempla in sé il grado di istruzione e l’aspettativa di vita, l’indice di povertà umana (Ipu-2), l’indice di sviluppo di genere (Isg), la misurazione delle componenti dell’Isu suddivise per genere e il Gem, cioè la misura dell’empowerment di donne e uomini, per qualificare il livello di sviluppo raggiunto in termini di opportunità garantite nella partecipazione alla vita sociale, economica e politica. I ricercatori hanno quindi calcolato i quattro indici per le venti regioni italiane, ponendoli a confronto con un indice di sviluppo umano basato solo sul reddito pro capite.

Dando un’occhiata ai risultati, le disuguaglianze tra uomini e donne in Italia risultano particolarmente accentuate non solo in termini di reddito ma anche di partecipazione alla vita lavorativa e politica. E sono distribuite diversamente tra le tre macroaree del nostro paese. Se mettiamo a confronto i valori medi dell’Indice di sviluppo umano (che comprende uomini e donne) e quelli dell’Indice di sviluppo di genere (solo donne) vediamo che quest’ultimo risulta più basso di circa un terzo. Un dato non solo italiano: in nessun paese al mondo le donne vivono le stesse condizioni di benessere e partecipano alla vita politica e sociale al pari degli uomini

Dal punto di vista dello sviluppo umano e non del reddito, il centro Italia rappresenta di gran lunga la zona migliore per le donne. Ai primi due posti troviamo Marche ed Emilia Romagna, al terzo il Friuli Venezia Giulia e quindi Toscana, Umbria, Abruzzo e Lazio. Questi risultati si spiegano in parte con i tassi di occupazione femminile più elevati rispetto alla media del paese, con il 43,5 per cento in Emilia Romagna, il 39,5 per cento nelle Marche e il 38 per cento in Toscana. Ma la migliore performance delle regioni dell’Italia centrale rispetto al nord è legata soprattutto agli elevati livelli di partecipazione scolastica superiore femminile. Il tasso di iscrizione all’università è infatti particolarmente elevato in queste zone, con valori tutti sopra il 40 per cento (Marche 45,7 per cento, Umbria 45,2 per cento e Toscana 44 per cento). Al contrario al nord il tasso di iscrizione universitaria risulta più basso di circa dieci punti o anche più, come in Trentino (28,2 per cento), in Piemonte (32,4 per cento) e Lombardia (33,5 per cento).

Ma l’istruzione non basta: lo dimostra la realtà di alcune regioni dove l’alta partecipazione universitaria delle donne coesiste con tassi di disoccupazione femminile ben più elevati rispetto alla media nazionale. Una conferma del fatto che mentre l’uguaglianza formale rappresentata dalla partecipazione scolastica è stata raggiunta anche per le donne, quella sostanziale, cioè l’accesso al mercato del lavoro, sembra essere ancora un obiettivo lontano.

L’analisi condotta non ha saputo spiegare questo divario con l’aiuto dell’indicatore di “partecipazione politica” delle donne, anche a causa dell’incompletezza delle fonti statistiche (per esempio la non piena disponibilità a livello regionale dei dati sui differenziali salariali). Ma nel complesso, si può dire che dove la presenza femminile nelle istituzioni è minore, in maniera continuativa nel tempo sia negli organi assembleari che di governo, come nel caso dell’Italia meridionale e in particolare in regioni come Calabria, Sicilia e Campania, le differenze tra uguaglianza formale e sostanziale tendono ad aumentare ulteriormente aggravando il quadro generale.

“Ora stiamo cercando di cogliere eventuali nessi di causalità tra le politiche regionali e le performance delle singole regioni in termini di sviluppo umano e in particolare di superamento delle disparità di genere esistenti sul territorio”, conclude Monni. “Dai dati analizzati è già possibile osservare, anche se ancora solo parzialmente, che dove le donne sono parte del processo decisionale, sono cioè rappresentate negli organi politici e imprenditoriali che contano, le politiche risentono di tale presenza, in particolar modo quelle per le donne. Un dato che, se confermato, può essere un forte incentivo a forzare il sistema per garantire una maggiore partecipazione delle donne al sistema politico e decisionale”.

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