Il morso della maggior parte dei serpenti deve la sua efficacia, e quindi la sua pericolosità, alla viscosità variabile del veleno. Nell’immaginario comune, i denti dei serpenti agiscono come una siringa, iniettando il veleno attraverso un canale interno; così succede, per esempio, nel caso del serpente a sonagli. Nella maggioranza dei casi, invece, il cocktail di tossine non passa dentro i denti veleniferi, ma scorre lungo un solco esterno, per poi penetrare nella ferita inferta alla vittima. Dal momento che la preda attaccata si divincola, come è possibile che il veleno raggiunga il suo obiettivo e non venga eliminato dai sussulti? Una domanda a cui hanno risposto i ricercatori della Technische Universität di Monaco sulle pagine di Physical Review Letters.
Il segreto è la viscosità variabile. In condizioni di riposo, il veleno risulta denso e quasi appiccicoso, caratteristiche che gli permettono di rimanere immobilizzato alla base della zanna. Tutto cambia, invece, quando il serpente affonda il suo morso nei tessuti muscolari di una vittima. Questi, infatti, tendono ad attrarre il liquido tossico verso di loro, proprio come se fossero dei fogli di carta che assorbono il contenuto di una cannuccia.
Grazie a questo fenomeno, i serpenti riescono a convogliare il veleno all’interno delle vittime, che restano immobilizzate a causa dei suoi effetti neurotossici. Per il gruppo di ricercatori, guidato Leo von Hemmen, l’evoluzione ha giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo di questo meccanismo. Tutti i singoli caratteri, dalla composizione del veleno, fino alla geometria delle zanne, sono stati selezionati nel corso dei millenni dando origine a una delle armi più sofisticate mai apparse in natura.
Riferimenti: Physical Review Letters DOI: 10.1103/PhysRevLett.106.198103
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