Neanderthal superstar

E se nel nostro Dna conservassimo un pezzetto dell’uomo di Neanderthal? La domanda che ossessiona i paleoantropologi nella missione quasi impossibile di ricostruire il lontano passato della nostra specie e dei nostri cugini più prossimi, potrebbe finalmente trovare risposta. In realtà, per il momento, ne ha trovate più di una, quelle annunciate su Nature e Science da due gruppi di ricerca, uno europeo firmato dal Max Plank Institute for Evolutionary Anthropology di Leipzig, in Germania, e l’altro statunitense seguito dal Department of Energy Joint Genome Institute di Walnut Creek, in California. Due studi che segnano una svolta: perché per la prima volta gli scienziati hanno messo le mani sul genoma dell’ultimo antenato dell’essere umano moderno, estratto da un fossile di 38 mila anni, in una grotta della Croazia. Per l’esattezza, sono riusciti a decifrare l’impronta del Dna nucleare, finora considerato una chimera irraggiungibile.

Le uniche informazioni disponibili provenivano, infatti, dal Dna mitocondriale (mDna) di 12 ominidi di Neanderthal, che al più avrebbe potuto raccontare metà della storia: l’mDna si trasmette per via materna, quindi di madre in figlia, e non può testimoniare se vi è stato un incrocio tra Homo sapiens e neanderthalensis nel “breve” (circa 4 mila anni) periodo di convivenza tra le due specie in Eurasia, circa 30 mila anni fa. Usando tecniche differenti, che hanno permesso di aggirare il problema della contaminazione e della degenerazione del materiale genetico, i due gruppi guidati da Svante Paabo al Max Plank e da Edward Rubin nel centro di ricerca americano sono riusciti a sequenziare rispettivamente un milione e 65 mila paia di basi di Dna nucleare. Ancora poco rispetto all’intera sequenza, che sarà ultimata solo fra due anni, ma già sufficiente a far luce sui misteri che circondano l’ultima fase dell’evoluzione umana. I risultati delle analisi sono in parte contraddittori. Su un punto, però, concordano, il momento in cui le strade evolutive di Neanderthal e Homo sapiens si sono separate dall’antenato comune: 516 mila anni fa il gruppo di Paabo e 706 mila quello di Rubin, che considerando il margine di errore di questo genere di stime rappresentano più o meno la stessa età, più di 450 mila anni or sono. In più, i ricercatori hanno scoperto che popolazione ancestrale che diede origine a entrambe le specie era formata da appena tre mila individui.

Le vedute invece divergono sul punto più controverso: le due specie di ominidi si accoppiarono, oppure no? Secondo Rubin, l’incrocio genetico non sarebbe avvenuto, almeno non a un livello apprezzabile. Di diverso avviso Paabo, che invece ritiene che ci sia stato un “flusso genetico dagli umani moderni verso i Neanderthal”, ovvero che l’incontro ci sia stato in modo unidirezionale tra i maschi di Homo sapiens e le femmine di Neanderthal, ma non il viceversa. In ognuno dei due casi, comunque, nel nostro pool genetico non ci sarebbero tracce dell’antico cugino. Certo è che condividiamo il 99,5 per cento del genoma, anche se è quel restante 0,5 per cento che catalizza la maggiore l’attenzione, perché è lì che è scritto quello che differenzia la nostra specie dagli ultimi antenati. È presto per mettere un punto. Siamo solo all’inizio della storia che è scritta nel genoma di Neanderthal e che i ricercatori sono intenzionati a decrittare per far luce sulle ombre dell’evoluzione umana.

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