Nelle mummie la chiave dell’epatite B

Lo studio del genoma di alcune mummie recentemente dissotterrate in Corea del Sud potrebbe rivelare informazioni utili a debellare il virus dell’epatite B. È quanto afferma Mark Spiegelmann del Kuvin Center for the Study of Infectious and Tropical Diseases della Hebrew University di Gerusalemme.

Un gruppo di ricercatori della Dankook University di Seul ha infatti isolato dal fegato di una mummia di un bambino vissuto 500 anni fa un virus appartenente al ceppo B e ha invitato Spiegelmann a verificare i risultati di questa scoperta. È la prima volta che tracce di epatite di tipo B vengono trovate in corpi mummificati. In Sudcorea il problema è particolarmente sentito: il 12 per cento della popolazione ha contratto questo morbo almeno una volta nella vita, a fronte di una media planetaria del 5 per cento.

La presenza nel paese di corpi ben conservati era fino a poco fa ritenuta improbabile, in quanto la mummificazione è da sempre bandita dalla tradizione religiosa, almeno fino all’avvento, nel 1392, della Dinastia Joseon che ha apportato cambiamenti radicali nelle pratiche di sepoltura. Il corpo veniva disteso sul ghiaccio per un periodo lungo da tre a trenta giorni, posto in una cassa di pino e avvolto negli abiti del deceduto. La bara veniva poi ricoperta con una mistura di terreno limoso. “In alcuni casi”, ha affermato Spiegelmann, “ciò garantiva un processo di mummificazione in condizioni estremamente naturali”.

I ricercatori intendono studiare il genoma delle mummie per seguire l’evoluzione del virus nel corso dei secoli. “Cinquecento anni fa il ceppo B esisteva già”, ha dichiarato Spiegelmann, “ciò che non sappiamo è quando sia avvenuta la separazione fra i ceppi A e B”. Secondo il ricercatore, la conoscenza di ceppi virali vecchi di 500 anni può aiutare a capire come il virus si sia evoluto e fornire i presupposti per lo sviluppo di nuove terapie per la cura di questa malattia. (s.s.)

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