Non solo tsunami

Basta così, grazie. Abbiamo raccolto soldi a sufficienza per gestire l’emergenza nei paesi asiatici colpiti dal maremoto. Ora, per favore, non dimenticate tutto il resto: i profughi del Darfur, le vittime della guerra nella Repubblica democratica del Congo, i malati di Aids, i bambini di strada delle Filippine…. E’ davvero inusuale che un’organizzazione umanitaria metta un freno ai suoi donatori. O almeno, che chieda loro di indirizzare meglio la solidarietà. Eppure è quel che ha appena fatto Medici Senza Frontiere Italia con un editoriale comparso sul sito il 4 gennaio scorso e firmato dal direttore generale Stefano Savi. MSF – si legge su www.medicisenzafrontiere.it – ringrazia i tantissimi donatori e annuncia la sospensione della raccolta fondi dedicata all’emergenza tsunami. L’impressione è che l’editoriale nasconda una nemmeno tanto velata critica a chi si è commosso per le vittime dello tsunami, ma non ha mai versato una lacrima per tutte le altre vittime delle zone di crisi. Stefano Savi, è così? C’è davvero una nota polemica nel vostro editoriale?”Diciamo che c’è una riflessione. Lo tsunami che ha colpito Sri Lanka e Indonesia è certamente una tragedia enorme, una catastrofe naturale che non ha eguali nell’era moderna. Certo, la presenza di tante vittime occidentali ha chiaramente coinvolto l’opinione pubblica dei paesi interessati, e scatenato un’emotività che altre crisi, magari altrettanto terribili in termini di numero di vittime, non hanno suscitato. Quelle meno mediatizzate, quelle che sono fuori della portata dei giornalisti, quelle che non toccano i paesi ricchi”. Quali sono le crisi dimenticate, o che comunque meriterebbero più attenzione? “Uno su tutti: l’Aids. E’ un flagello mondiale, che a 20 anni dallo scoppio dell’epidemia ha fatto 20 milioni di morti e che oggi miete vittime soprattutto in Africa: tre milioni di bambini dei paesi poveri sono affetti da Hiv e richiedono cure immediate. Eppure per questa emergenza è difficile ottenere fondi sufficienti a garantire un’assistenza appropriata. Un altro esempio? La guerra nella Repubblica Democratica del Congo, che ha fatto tre milioni e mezzo di morti dal 1998. Ma i media occidentali non ne parlano mai, e dunque nessuno, nei paesi ricchi, si sente coinvolto. Anche nella regione del Darfur la situazione è esplosiva, e dovrebbe essere in cima alla lista delle priorità della comunità internazionale. Ma purtroppo la lista è lunghissima. Per questo chiediamo ai nostri sostenitori di avere fiducia in noi, e di accettare le nostre scelte quando decideremo di dirottare parte dei soldi ricevuti per lo tsunami a progetti che dal nostro punto di vista meritano altrettanta attenzione”.Quanto avete raccolto sino ad oggi per le vittime dei paesi asiatici? “50 milioni di euro, di cui 5 milioni solo in Italia. E’ una cifra enorme, sufficiente a dare seguito ai progetti già avviati nelle zone colpite, per metterne in cantiere di nuovi e soprattutto per lavorare sulla post-emergenza, quando l’emozione sarà passata e le popolazioni colpite dovranno gestire il quotidiano”.Quali sono i progetti che avete in piedi nella regione colpita?”Oggi abbiamo circa 80 volontari nei progetti delle zone disastrate: siamo stati tra i primi ad arrivare, e i primi a raggiungere le regioni più remote della catastrofe, grazie all’accordo con Greenpeace, che ha messo a disposizione la nave Rainbow Warrior e i suoi gommoni. Il nostro personale è composto da medici e infermieri per la cura dei feriti e il controllo di eventuali epidemie, ma abbiamo anche tecnici per l’installazione di punti d’acqua potabile e latrine, e logisti per la linea di approvvigionamento e stoccaggio dei viveri. Abbiamo detto basta alle donazioni quindi non perché non avessimo progetti da finanziare, ma perché siamo coscienti di essere arrivati molto vicini ad un limite: se lo oltrepassiamo, rischiamo di abbassare la qualità e l’efficacia dei nostri interventi. Ma c’è anche un altro rischio”. Quale?”In generale, quando i soldi da gestire sono così tanti, è necessaria una supervisione. I nostri operatori nella regione ci dicono che gli aeroporti sono pieni zeppi di casse di medicinali, vestiti, alimenti, che nessuno sa dove mettere o come utilizzare. Gli aerei in arrivo dai paesi donatori sono costretti a tornare indietro, perché non c’è nemmeno il posto per atterrare e dove stivare il carico. Insomma, si sente forte la mancanza di un coordinamento generale degli aiuti”.

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