Ora l’infarto si studia nei pazienti anomali

Ogni sei minuti un italiano è colpito da infarto. Il 20 per cento di queste persone non presenta alcuno dei principali fattori di rischio, mentre il 30 per cento ne presenta uno soltanto. D’altra parte, il 70 per cento di quanti presentano almeno tre fattori di rischio non muoiono per cause cardiovascolari. Cosa innesca allora l’infarto nei primi e cosa protegge i secondi? Rispondere a questa domanda, confrontando queste due diverse categorie di pazienti, è l’obiettivo della ricerca Opposites, guidata da Attilio Maseri, direttore del Dipertimento Cardio-Toracico dell’ospedale San Raffaele di Milano, e Francesco Prati, direttore della Struttura Complessa di Cardiologia Interventistica dell’Ospedale San Giovanni Addolorata di Roma. Lo studio è stato presentato lo scorso 5 marzo in occasione del congresso “Conoscere e Curare il Cuore”, promosso e organizzato dalla Fondazione Centro per la Lotta contro l’Infarto.

È la prima volta che vengono presi come oggetto di studio quei pazienti che non rientrano nella media. Nella ricerca, infatti, saranno confrontati pazienti che hanno una recidiva (e quindi una grande predisposizione all’infarto) con quanti presentano un’angina in forma stabile.

In particolare verranno studiate le placche aterosclerotiche grazie a una nuova tecnica di imaging, la Oct (optical coherence tomography). “L’Oct permette lo studio delle arterie del cuore grazie a una piccola sonda che emette luce a infrarossi”, spiega Prati. “Otteniamo così le immagini trasversali dell’arteria riprese dall’interno, e da queste ricostruiamo il vaso sanguigno in 3D. La tecnica mostra le placche con una definizione 15 volte superiore all’ecografia intracoronarica”. In questo modo, i cardiologi possono osservare la composizione delle placche vulnerabili (quelle ricche di colesterolo superficiale), per esempio, oppure contare le placche rotte, cioè le cicatrici di vecchi eventi che non sono culminati in un infarto. Le informazioni ottenute attraverso la Oct saranno poi integrate con quelle provenienti dall’analisi del trombo e dagli esami dei marker nel sangue, per valutare il contributo dell’infiammazione all’infarto. In questo modo, secondo i due cardiologi, si arriverà a conoscere meglio la storia dell’aterosclerosi, la prognosi e le cause dell’infarto. 

Il fine ultimo? Sviluppare nuove terapie preventive, magari ritagliate su ciascun paziente. “Sono venti anni che abbiamo gli stessi obiettivi terapeutici per la prevenzione e, ovviamente, abbiamo affinato le armi per ridurre gli infarti; ma oggi la ricerca biomedica in cardiologia è in una fase di stallo”, ha affermato Maseri. “Piuttosto che indagare dettagli sempre più piccoli di ipotesi sempre più vecchie, è ora di studiare quei casi che si presentano in modo animalo. Focalizzarsi sulle persone, sul momento in cui si sta verificano l’infarto, questa è una via di ricerca completamente nuova”. 

Invece che ricercare un solo colpevole dell’arresto cardiaco, poi, si dovrebbe cominciare ad ammettere che la realtà è ben più complessa. “Andremo a cercare i fattori scatenanti e tutti i meccanismi che hanno un rapporto causa-effetto, cosa che non è mai stata fatta prima”, ha sottolineato Prati. “Ed è bene mantenere il campo delle possibilità aperto per non partire già con le conclusioni in mente, e condurre uno studio con il solo scopo di dimostrare qualche verità”, ha aggiunto Maseri. “Vogliamo individuare quegli elementi che permettano di formulare nuove ipotesi, e nuovi meccanismi, per poi identificare i metodi che li possano bloccare”.

I preparativi per lo studio sono cominciati quasi due anni fa. Ora la ricerca è ai blocchi di partenza, pronta per essere presentata ai comitati etici; il via è previsto per il prossimo giugno. I centri – 15 in tutto, ben distribuiti lungo la penisola – sono stati selezionati in base all’esperienza nell’effettuare le operazioni di angioplastica; attualmente, in queste strutture si stanno tenendo i corsi sulla nuova tecnica.

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