Un attentato palestinese nella città israeliana di Eilat e a un liceo di Beer Sheva, razzi dalla Striscia di Gaza, e la risposta dei raid israeliani contro Hamas. La risoluzione del conflitto che insanguina il Medio Oriente da oltre 60 anni si allontana ancora una volta, e l’instaurarsi di un dialogo tra israeliani e palestinesi sembra ancora poco probabile. Eran Halperinn, israeliano e studioso di scienze politiche alla Lauder School of Government, Diplomacy and Strategy di Herzliya, che da anni analizza i tratti psicologici dei due popoli, pubblica oggi su Science un interessante rapporto, e mette in luce un particolare aspetto delle loro relazioni: la disponibilità al dialogo da parte di una fazione dipende fortemente da quanto questa crede nella capacità dell’altra di cambiare. Ovvero, nella natura mutevole di un gruppo e, in senso lato, della sua cultura, in primis di quelle convinzioni legate all’intollleranza e alla violenza.
Questa riflessione trova ora, per la prima volta, un riscontro oggettivo, e proprio nel rapporto tra arabi e israeliani. Finora, infatti, la relazione era stata osservata sperimentalmente solo nei rapporti tra singoli individui, mai al livello di ampi gruppi.
In un primo test, Halperinn ha chiesto a 500 ebrei israeliani (rappresentativi della popolazione) di compilare un questionario in cui si chiedeva di esprimere favore o disaccordo nei confronti di alcune affermazioni generali sull’immutabilità dei valori assoluti in cui si riconosce un gruppo. In una seconda parte del questionario, veniva chiesto quali fossero le opinioni personali sugli arabi palestinesi e, in una terza, se fossero ben disposti a trovare un compromesso per raggiungere la pace.
Gli altri tre esperimenti, invece, sono stati condotti su altri gruppi di diversa estrazione: uno composto da 76 studenti ebrei israeliani, uno da 59 cittadini palestinesi residenti in Israele e l’ultimo da 53 palestinesi di Ramallah, in Cisgiordania. A parte le dovute sostituzioni dei termini riferiti ai gruppi etnici di appartenenza, i questionari erano simili a quelli del primo test.
Incrociando i risultati delle diverse sezioni, Halperin ha notato che buona parte degli intervistati dal carattere malleabile condivideva lo stesso punto di vista. Ovvero, chi riteneva che i gruppi non fossero immutabili per natura – oltre a essere in pieno disaccordo con affermazioni del tipo “tutti i palestinesi/israeliani sono malvagi per natura” – risultava più predisposto a trovare una soluzione ragionevole al conflitto che divide i due popoli. Non solo: inducendo i gruppi a credere che le controparti fossero disposte a cambiare, il ricercatore ha riscontrato una maggiore propensione al dialogo.
Finora, in pochi hanno provato a indagare le dinamiche che portano gli individui dall’indole malleabile a chiedersi se una guerra sia giusta o meno. Nel caso della Palestina, queste dinamiche potrebbero essere sfruttate per muovere dei concreti passi verso la riconciliazione tra arabi e israeliani.
Credit immagine: davidkarvala (Flickr)
Riferimento: DOI: 10.1126/science.1202925
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