Passioni e inganni del cibo

Forse è meno difficile redigere una storia d’Italia o dei Balcani che una storia dell’alimentazione italiana, se non altro perché esistono parecchie Italie alimentari. Ha poco senso parlare “di modello alimentare italiano”, dimenticando l’enorme differenza tra i modi di mangiare della tirrenica Firenze e quelli della celtica Milano. E poi, cosa direbbero i Pugliesi; i Campani; i Siciliani se venissero a scoprire la filiazione delle loro cucine da quella magrebina e mediorientale? (1). Come si possono definire “italiane” certe preparazioni come la bagna cauda, i pizzoccheri, la bresaola, la polenta, i canederli, il brodetto d’anguilla, la pagliata, le puntarelle, la pizza napoletana, le orecchiette con i broccoli e così via? È pur vero che ogni Paese del mondo ha le sue specialità regionali, ma queste non imprimono al vitto quotidiano caratteristiche così diverse da quelle che contraddistinguono gli usi valdostani da quelli calabresi o sardi.

Se è piuttosto abusivo parlare di modello alimentare italiano, è ancora più scorretto, concettualmente e linguisticamente, usare l’espressione “dieta mediterranea” (barbara traduzione della già discutibile locuzione “mediterranean food style” usata dagli americani), come rivela lo stesso Camporesi (1): Nessuna delle genti che vivono ai bordi di questo glorioso mare l’ha mai conosciuta e tanto meno praticata. Se è vero che esistono molteplici sistemi alimentari e diversissime cucine mediterranee […], le differenze tra costa e costa; fra paese e paese rimangono fortissime; […] le disparità rimangono enormi. E ancora: La spaccatura fra Mediterraneo cristiano e Mediterraneo turco-musulmano è troppo profonda per autorizzare parentele, affinità, consanguineità indebite.

Questo, forse qualcuno obietterà, vale per il passato remoto o, meglio, relativamente remoto, perché nessuno può ancora pensare di richiamarsi alla gastronomia antecedente alla scoperta dell’America, da dove ci sono pervenuti i pomodori, le patate, molte varietà di fagioli, il mais, i peperoni, il cacao ecc., che hanno progressivamente e stabilmente rivoluzionato e arricchito l’alimentazione degli europei.È vero. La rivoluzione alimentare americana (così potremmo dire) costituisce un lungo processo innovativo ormai definitivamente acquisito dagli europei, tanto che oggi nessuno recepisce come esotiche le numerose vivande condite con un succo o salse di pomodoro, il purè o gli gnocchi di patata, i fagioli all’uccelletto, la polenta e l’olio di mais, le peperonate, il cioccolato o il tacchino al forno. Anzi, tra le tante preparazioni gastronomiche a basi di alimenti di origine americana ve ne sono alcune che si configurano come piatti tipici di determinate regioni. Insomma, certi prodotti alimentari vengono culturalmente assimilati da altri popoli, anzi subiscono un processo di regionalizzazione, poi vengono adottati in zone di altri continenti, tendendo talora (anche loro!) verso una sorta di globalizzazione. Tutto questo, di solito, si traduce in vantaggi nutrizionali, (ed economici). Vi possono essere, però, anche conseguenze negative, come nel caso di irrazionali manipolazioni e del ricorso a indesiderabili processi di industrializzazione.

Alimenti industrialmente prodotti

La tecnologia alimentare comincia a diventare molto intraprendente verso la metà del XIX secolo. Il primo segnale significativo è forse rappresentato dalla preparazione, prima del 1850, degli estratti di carne da parte di Louis von Liebig (1803-1873). L’innovazione è coronata da un durevole, strepitoso successo commerciale che deriva da molteplici cause: il prodotto è stato ideato e ottenuto da un prestigioso ricercatore; è immesso in un attraente vaso con capsula ed etichetta; conferisce sapore e aroma apprezzabile al brodo che se ne ricava; ha lunga conservazione anche alla temperatura ambiente; snellisce alleggerisce i compiti di chi è addetto alla cucina, sia nell’ambito familiare sia in quello delle mense collettive di comunità religiose, collegi, caserme ecc. Anzi, in seguito, in occasione di eventi bellici, quando cioè le cucine da campo debbono operare in tempi brevi e con la massima semplicità, l’estratto di carne risulta estremamente utile. All’inizio del Novecento, la compagnia Liebig (lo scienziato ormai defunto da un trentennio, aveva costruito un piccolo impero imprenditoriale), per tutelarsi dai concorrenti ottiene il diritto di apporre un’ammonitrice dicitura in etichetta: genuino soltanto se l’etichetta di ciascun vaso porta di traverso la firma J. Liebig in inchiostro azzurro.

A questo punto siamo già in pieno connubio tra industria alimentare e pubblicità, con coinvolgimento (compiacente) dell’autorità giudiziaria. Intanto lo svizzero Jules Maggi, gran sacerdote delle minestre, ideatore e produttore di farine di piselli, di fagioli e di lenticchie, aveva anche messo a punto i dadi di brodo. Il dado è la forma vincente: pratica, igienicamente preferibile e la più atta a semplificare il trasporto perché non crea spazi vuoti e alleggerisce la confezione.

Nei decenni successivi, fino ai giorni nostri (tempi di additivi, di coadiuvanti tecnologici, di conservanti di allettamenti e di inganni sensoriali) gli estratti di carne, tuttora in commercio ma meno richiesti, cedono il passo ad altri dadi da brodo, più economici ma deteriori, nei quali, di solito, la presenza dello stesso estratto di carne è solo simbolica (per lo più un miserevole 0,3 per cento), mentre trionfano il comune sale da cucina (30-60 per cento) e l’esaltatore della sapidità per eccellenza, il gluttammato di sodio, dal costo vile: che squallore, che decadenza, che volgare inganno per le nostre papille gustative e per i recettori olfattivi! Così è, ci piaccia o no, Sic transit gloria mundi. Vulgus vult decipi (ossia le gente vuol essere presa in giro).

Dopo la geniale e remunerativa trovata dello scienziato-impreditore Liebig, la successiva e più clamorosa svolta dell’industria alimentare (condotta, però, con intenti di surrogazione e poi cinicamente sfruttata) è forse rappresentata dall’avvento della margarina (un bel nome, quasi lezioso, seduttivo. E infido). Essa è nata in Francia nel 1860, come auspicava, in tempi di crisi agricolo-alimentare, Napoleone III. Questi, nel 1866, fece bandire un concorso per la realizzazione di un economico surrogato del burro. Il successo arrise al chimico Hyppolite Mège-Mouriés, il cui “burro artificiale” fu ufficialmente denominato margarina (termine precedentemente usato da Michel-Eugène Chevreul per indicare la tripalmitina). Egli ottenne la prima margarina (e fu subito straordinario successo) manipolando il sego (principale ingrediente) con olio di semi, latte scremato e diacetile.

Ecco, è qui – nel diacetile, appunto – la chiave della fortuna di Mège-Mouriés e del suo intruglio. La produzione della margarina è un evento in cui la natura subisce, per così dire, la prima grande sconfitta a opera del laboratorio di chimica. E qui nasce il primo surrogato scientifico di un alimento naturale, anzi del grande signore dell’alta cucina. L’appagamento sensoriale del consumatore è quasi perfetto sia sul piano giustificativo, sia su quello olfattivo. Il diacetile, infatti, è dotato di spiccato odore di burro!

Moderne alchimie

Il diacetile è un chetone (molecola caratterizzata da un carbonile, ossia dal gruppo = CO); anzi è un dichetone (gruppo -COCO-). È il più semplice dei dichetoni, con formula CH3COCOCH3. È un liquido giallo (il colore giusto per un surrogato del burro) e odore appunto burroso. Tra gli additivi alimentari (composti intenzionalmente associati agli alimenti per migliorarne le caratteristiche organolettiche e la conservabilità senza modificarne apprezzabilmente il valore nutritivo), il diacetile è una sorta di capostipite, anche perché il suo fortunato impiego ha innescato una frenetica e spesso spregiudicata ricerca di nuove sostanze chimiche atte a preservare e a rendere più attraenti i prodotti dell’industria alimentare. Però, sebbene il diacetile sia un additivo a più facce (anzitutto aromatizzante e colorante), ne è stato interdetto l’uso, sia per ragioni tossicologiche, sia perché favorisce pratiche fraudolente.

La margarina, nata come grasso animale è poi divenuta ai giorni nostri un prodotto di origine vegetale, sin dalla sua prima comparsa, sull’onda del successo, è stata presentata in molteplici versioni, ottenute con processi tecnologici diversi, con ridondanza di additivi (oltre a quelli citati, emulsionanti, antimuffa, stabilizzanti, ecc.). Quello che era inizialmente il suo principale ingrediente, il sego, considerato in seguito come indesiderabile dal punto di vista nutrizionale e metabolico, è stato man mano sostituito con altri grassi animali e poi vegetali, tra cui olio di cocco (già largamente usato dalle pasticcerie e dall’industria dolciaria).

L’entrata in scena dei grassi vegetali nel processo produttivo delle margarine rappresenta un’altra svolta significativa. In sostituzione del sego e di altri grassi animali ritenuti troppo ricchi di acidi grassi saturi (ai quali era ed è, con abusive generalizzazioni, attribuito un ruolo ipercolesterolemizzante) sono stati impiegati olio di cocco, olio di palmisti, di dica (o dika) e altri oli tropicali ad alta densità e tutti di basso costo. E tutti, guarda caso, a elevatissima percentuale di acidi saturi, anzi di acido laurico, acido miristico e acido palmitico, ossia i tre più indesiderabili, i più aterogeni, i più ipercolesterolemizzanti (2). A tale proposito va ripetuto (repliva iuvant) che i più dannosi grassi esistenti in natura non sono il sego e altri lipidi animali, ma proprio l’olio di cocco, di palmisti, di dica e altri, tutti vegetali.

Dietro a tutto questo c’è un ignobile regia che agisce con ambiguità psicologica e intenti demagogici, con l’avallo del legislatore. Quando si tratta di grassi, tutto converge nel conferire all’aggettivo “vegetale” un’aureola di protezione benedicente. Mentre è sfacciata mistificazione.Come se non bastasse, si è aggiunta infine la furbizia di utilizzare oli molto fluidi: per poi solidificarli in laboratorio mediante idrogenazione (che consiste nel trasformare acidi grassi insaturi in saturi!). Questa tecnica (ciliegina sulla torta) determina la comparsa di molecole di acidi grassi trans. Anch’essi ipercolesterolemizzanti. Per chi, in materia di storia alimentare degli ultimi cento anni, volesse saperne molto di più, suggerisco un’opera che fa onore all’editoria italiana: “Storia d’Italia; Annali 13: l’alimentazione”, Giulio Einaudi Editore, 1998.

NOTE

1) Piero Camporesi, Le vie del latte dalla Padania alla steppa, Garzanti 1993
2) Vedi anche “Grassi alimentari e dogmi scientifici”, Sapere n.4, 1989; e “Feticci vegetali, tabù animali”, Sapere n.6, 1989

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