Perché sembra così difficile tornare sulla Luna?

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Credit: Nasa/JSC/ASU/Andy Saunders

I primi due tentativi di lancio per la missione Artemis sono andati a vuoto. E dopo l’ultima batosta, una perdita massiccia di idrogeno liquido dalla linea di rifornimento diretta allo stadio centrale del razzo, i tempi di attesa potrebbero farsi sempre più lunghi: per ritentare entro la fine di settembre la Nasa deve infatti riuscire a riparare il razzo in tempi record, e incassare una proroga della certificazione dei sistemi di sicurezza dalla Us Space Force, che andrebbero ricontrollati ogni 25 giorni. In caso contrario, non se ne riparla prima di ottobre. Non resta che incrociare le dita, quindi, perché ulteriori ritardi e problemi – per non parlare ovviamente di un incidente – potrebbero mettere a rischio la missione (criticata in casa da tempo per via dei costi esorbitanti), e con lei le nostre speranze di tornare sulla Luna, almeno nel prossimo futuro. Per molti, una domanda sembra inevitabile: come mai tanti problemi al giorno d’oggi, se sulla Luna ci siamo già stati, con tecnologie primitive e una missione messa in piedi in appena nove anni? La verità? I problemi ci sono stati anche all’epoca, perché mandare un’astronave sulla Luna è molto, molto, più difficile di quanto possiamo immaginare. Ma in quel caso, fallire (o anche solo tardare) non era un’opzione.

La Missione Apollo

Per capire il clima in cui venne organizzata la prima missione americana sulla Luna dobbiamo ricordarci il periodo storico da cui è nata. Era il 1961, in piena guerra fredda, con la corsa allo spazio che aveva assunto un’importanza simbolica strategica, quando Kennedy si presentò di fronte al Congresso per annunciare che avrebbero raggiunto la Luna entro la fine del decennio. I sovietici l’avevano avuta vinta nelle prime due tappe dell’avventura umana nello Spazio, il lancio del primo satellite, con lo Sputnik 1 entrato in orbita nel 1957, e il primo astronauta ad aver lasciato l’atmosfera terrestre, Yuri Gagarin, nell’aprile di quell’anno. E agli Stati Uniti serviva un successo schiacciante per poter riaffermare la propria supremazia tecnologica e militare agli occhi del mondo, dei rivali sovietici e del popolo americano.

L’obbiettivo dettato dal presidente americano era quindi senza precedenti: portare un uomo sulla Luna con un’agenzia spaziale appena nata, e senza avere neanche pronte le tecnologie per mandare gli astronauti nello Spazio. Per riuscire nell’impresa, la Nasa si vide affidare l’equivalente di 100 miliardi di dollari dei giorni nostri, e lanciò due programmi spaziali gemelli: il progetto Gemini, che doveva sviluppare la capacità di volo spaziale umano del paese, e Apollo, dedicato a portare gli americani sulla Luna. Entrambi si sarebbero rivelati un successo, ma non senza problemi, incidenti, e una sana dose di fortuna e incoscienza.

Una missione pericolosa

In una simile corsa contro il tempo non si poteva procedere con troppa premura. L’enorme macchina nata attorno alla Nasa grazie all’iniezione di fondi miliardaria decisa da Kennedy permise di procedere a tappe forzate, e in appena sei anni, nel 1967 erano pronti per il test sia il modulo lunare Apollo, sia il razzo più potente mai costruito, il Saturn V, che avrebbe dovuto portarlo nell’orbita del nostro satellite. L’ottimismo americano era però destinato a venire presto ridimensionato nel peggiore dei modi. Capitò durante un’esercitazione con equipaggio dell’Apollo, programmata in vista della partenza della missione Apollo 1, che avrebbe dovuto provare la nuova capsula in orbita terrestre nel febbraio del 1967. A un mese dal lancio, gli astronauti Virgil “Gus” Grissom, Edward White e Roger Chaffee entrarono nell’abitacolo per verificare le procedure di lancio. Il portello della capsula venne chiuso, l’interno pressurizzato con un’atmosfera di puro ossigeno. Poi una voce urlò nella radio di bordo “Fuoco. Abbiamo del fuoco nell’abitacolo”, e l’interno della cabina venne avvolto dalle fiamme. L’incendio venne innescato da una scintilla sfuggita ad un cavo difettoso e, alimentato dall’ossigeno presente nella cabina di pilotaggio, non lasciò scampo ai tre astronauti, bloccati all’interno della cabina da un portello che non era stato progettato per essere aperto in tempi rapidi in caso di incidente.

Il tragico incidente dell’Apollo 1 non fermò il programma spaziale americano, ma poco ci mancò. La capsula venne riprogettata da capo, per fornire maggiore sicurezza agli astronauti. E i successivi test di volo subirono importanti ritardi, per assicurarsi che nulla andasse più storto in modo così spettacolare. In effetti, il primo test del Saturn V, la missione Apollo 4, si rivelò un successo. Ma il lancio, paragonabile a quello di Artemis 1 perché era pensato per testare il razzo senza equipaggio, si svolse alla fine nel novembre del 1967, a quasi un anno di distanza dalla data prevista originariamente. E solo dopo che gli ingegneri Nasa riuscirono a risolvere oltre 1.400 problemi costruttivi emersi nel corso di un’ispezione ordinata dall’agenzia in seguito all’incidente dell’Apollo 1.

Al netto dei problemi, in sei anni la Nasa aveva comunque ideato e costruito da zero il razzo Saturn V, il più potente vettore spaziale mai sviluppato prima del nuovo Space Launch System, che verrà sperimentato proprio nella missione Artemis 1, e che ha richiesto 10 anni per vedere la luce. Un’impresa storica, portata avanti in un periodo in cui l’esplorazione spaziale era ancora un’attività pionieristica, in cui le vite degli astronauti (e non solo) erano costantemente appese a un filo. Basta ricordare la quantità di incidenti accaduti durante lo storico volo dell’Apollo 11, in cui Armstrong e Aldrin si trovarono ad atterrare sulla Luna con un segnale di errore che lampeggiò costantemente (segnalando un sovraccarico del computer) minacciando di resettare il computer di bordo; navigando a vista in una zona di atterraggio diversa da quella prevista nelle esercitazioni, e con scorte di carburante che andavano pericolosamente esaurendosi. Un’avventura che si poteva vivere negli anni ’60, ma che oggi non sarebbe più concepibile. Anche per questo, probabilmente, il lancio dell’Artemis ci sembra andare molto più per le lunghe del dovuto.

Obiettivi diversi

Nonostante la destinazione comune, il programma Artemis ha inoltre un obiettivo sostanzialmente diverso da quello del programma Apollo: se negli anni ’60 si lavorava infatti per una rapida visita dimostrativa sulla Luna, oggi lo scopo è quello di stabilire una presenza duratura sul satellite, e di testare e sviluppare molte delle tecnologie e delle infrastrutture necessarie per tentare il viaggio verso Marte. Anche per questo le differenze tecnologiche sono notevoli. A partire dal modulo di comando. Quello dell’Apollo era pensato per portare tre astronauti, e aveva una cabina di circa 6 metri cubi. La capsula Orion prevede quattro posti, e uno spazio abitabile di 9 metri cubi. Il vettore usato in passato era il Saturn V, rimasto per decenni il più potente razzo spaziale mai realizzato. Nella missione Artemis verrà sperimentato il suo successore, lo Space Launch System, con una capacità di spinta superiore del 15%, e pensato per essere utilizzato anche nelle future missioni dirette verso il pianeta rosso. Simile il discorso per la capsula Orion, progettata per spingersi ben al di la di quanto fatto da quella della missione Apollo: già con Artemis 1 la capsula viaggerà attorno alla Luna, spingendosi circa 64mila chilometri più distante dalla Terra di quanto fatto in passato. E in futuro, avrà il compito di viaggiare per oltre 250 milioni di chilometri, fino a raggiungere Marte. È chiaro che la riuscita del primo test di questi apparecchi è di importanza cruciale non solo per la missione Artemis, ma per i prossimi decenni di esplorazione umana dello Spazio. E con una posta simile in ballo, la Nasa probabilmente fa bene a prendersi tutto il tempo necessario per garantire un lancio di successo.

via Wired.it