Perché Galileo vota sì

I lettori che ci seguono con una certa costanza avranno notato l’impegno di Galileo, cioè di tutte le persone che quotidianamente contribuiscono al giornale con il loro lavoro, nel prossimo referendum sulla Legge 40. Abbiamo ospitato sulle nostre pagine i contributi dell’Associazione Madre Provetta, abbiamo dato voce ai malati (di emofilia, di distrofia muscolare, di talassemia) che si battono per la modifica degli articoli che li penalizzano, abbiamo esplorato le ragioni del Sì attraverso gli studi clinici e le ricerche pubblicate sulle principali riviste scientifiche nazionali e internazionali. A tre giorni dall’apertura delle urne, il 12 e 13 giugno prossimi, sentiamo dunque la necessità di spiegare i perché di una posizione così netta e convinta. Alla base del nostro impegno sta innanzitutto un radicato attaccamento alla democrazia, di cui il referendum è strumento basilare. Come ricorda la Costituzione, il voto è oltreché un diritto, anche un dovere civico. Un dovere non coercibile, ovviamente, per cui l’astenersi dall’esercitarlo è per ognuno di noi una scelta legittima.

Troviamo però molto discutibile che i massimi rappresentanti delle istituzioni lo propagandino come scelta appropriata. E la spiegazione in chiave “strategica” di questa scelta – far fallire il referendum per evitare la vittoria dei Sì – è ancora più sconcertante: si auspica infatti che una minoranza imponga il proprio volere a una maggioranza. Un altro motivo di grande disagio per chi, come noi, crede in uno Stato laico, è l’intervento diretto delle gerarchie ecclesiastiche (dagli alti prelati sino ai piccoli parroci) nella lotta politica referendaria. Intervento che non mira legittimamente a orientare le coscienze secondo i dettami della Chiesa, ma a far fallire una consultazione referendaria di uno Stato sovrano, impedendo un confronto franco tra i cittadini dei due diversi schieramenti. E ancora. I sostenitori del No e dell’astensione sostengono che un’eventuale vittoria dei Sì precipiterebbe il paese nel Far West della procreazione: e già vediamo avanzare un esercito di “mamme-nonne”, di allegre signore fecondate con il seme dei defunti mariti, schiere di bambini clonati, immoralissime coppie gay desiderose di metter su famiglia…

Insomma, l’anarchia in provetta. Si tratta, com’è ovvio, di una panzana. Chi dipinge a tinte forti una vittoria del Sì dimentica che i quesiti referendari tentano di disinnescare solo quelle parti della normativa che incidono in modo inaccettabile sulla salute delle donne e dei bambini, e sulla ricerca scientifica. La Legge 40 continuerebbe a regolamentare la materia in modo più restrittivo che in altri paesi europei.Ma le ragioni più profonde della nostra presa di posizione, che – lo ripetiamo – è quella di recarsi alle urne e votare quattro sì, si trovano proprio nel nostro lavoro. Siamo giornalisti, cioè tecnici della comunicazione, e ci occupiamo di scienza e di tecnologia, di ricerca e di sviluppo.

Dunque negli anni abbiamo esplorato il mondo della Procreazione assistita con gli occhi della nostra professione, leggendo gli studi scientifici, parlando con i ricercatori, approfondendo i diversi aspetti della questione. E abbiamo maturato alcune convinzioni. Dal nostro punto di vista la Legge 40 è una legge segnata da una profonda ideologia di stampo cattolico, e che per questo motivo non andrebbe affermata come legge dello Stato. È una legge che non tiene in alcuna considerazione la salute fisica e psicologica della coppia che si sottopone agli interventi di procreazione assistita e che esclude il mondo della ricerca italiana dal circuito scientifico internazionale. Soprattutto, è una legge che parte da un presupposto che ci trova in profondo disaccordo: quello secondo cui i diritti dell’embrione al suo primo stadio siano da anteporre a quelli della donna che sceglie di portarlo in grembo. Ridurre il corpo femminile a mero contenitore, e appiattire il concetto di maternità e paternità a una pura questione genetica ci sembra un terribile passo indietro, dal punto di vista scientifico, etico, culturale. Che non siamo disposti a compiere.

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