Piani di autogoverno per gli indigeni

Un conflitto armato che dura da più di 50 anni, la guerriglia, la povertà e uno sviluppo economico che favorisce il sovrasfruttamento delle risorse naturali e l’espropriazione delle terre. Un mix esplosivo, che in Colombia sta provocando o accelerando l’estinzione di molti popoli indigeni come i Nasa, protagonisti del libro sull’autogoverno indigeno “Las comunidades indigenas nel norte del Cauca – Colombia”. Il volume è il risultato del Progetto Sun – Sostegno all’Università indigena e interculturale del Cauca, presentato lo scorso 30 giugno a Roma. Il progetto è stato realizzato con il finanziamento della Regione Lazio e la cooperazione tra enti e associazioni colombiane e italiane, tra cui A Sud, Pontificia Università Javeriana di Cali, Isgi/Cnr.

“Nella varie fasi vissute dal Paese, dal passaggio alla Repubblica alla contrapposizione tra conservatori e liberali fino alla nascita dei gruppi armati, si è sempre tentato di inglobale gli indigeni in un modello di vita e di sviluppo che non era il loro, e per questo siamo stati perseguitati e uccisi”, racconta Alejandra Llano, dirigente dell’Associazione dei Cabildos indigeni del Nord del Cauca (Acin) e autrice del libro. “Nel 1971 è nato il Consiglio regionale indigeno del Cauca (Cric) con l’obiettivo di recuperare le terre espropriate, rafforzare l’identità indigena e l’autonomia delle comunità con una legislazione propria”.

La situazione, però, continua tutt’oggi ad essere preoccupante. Secondo l’ultimo rapporto dell’Organizzazione nazionale indigena della Colombia (Onic), delle 102 comunità indigene riconosciute almeno 64 rischiano l’estinzione; fra queste i Kogi, gli Awà, i Kofàn, i Cuiva e i Nukak Maku. Diciotto di esse contano meno di 200 individui e dieci meno di 100, mentre una, quella dei Makaguaje, è formata da meno di cinque persone. Dal 2000, secondo l’Onic, sono stati assassinati oltre 1200 indigeni e 54mila sono stati espulsi dalle proprie terre. In parte la colpa è del conflitto che vede contrapposti da anni lo Stato e i gruppi armati come le Farc e l’Esercito di Liberazione Nazionale (Eln). La localizzazione strategica dei territori, sia per lo sviluppo del confronto armato che per le attività del narcotraffico, rende gli indigeni particolarmente vulnerabili. “Il conflitto si è acutizzato, il governo di Uribe aveva avviato una forte politica di militarizzazione per combattere la guerriglia. Gli indigeni si trovano nel mezzo degli scontri e in molti vengono uccisi perché considerati fiancheggiatori”, spiega Llano. “Con il nuovo presidente Juan Manuel Santos si continuerà su questa strada. Nella nostra regione negli ultimi sei mesi sono morti 40 indigeni”.

Il conflitto non è l’unica minaccia per le popolazioni native. Cruciale è la questione del diritto alla terra. Una serie di leggi promosse da Uribe, come lo Statuto rurale, il Codice delle miniere, la Legge sulle acque e sulle foreste, favorisce gli interessi economici e gli accordi con le aziende straniere per lo sfruttamento delle risorse e contribuiscono alla spoliazione dei territori. “La Costituzione del 1991 riconosce agli indigeni il diritto al territorio collettivo, a territori propri, all’autorità civile e giudiziaria dei cabildos, a un sistema educativo e alla consulta previa nei territori indigeni”, ricorda l’autrice. “Eppure a 19 anni di distanza questi diritti restano lettera morta”. Più del 65 per cento delle concessioni nel campo minerario-energetico sul territorio indigeno violano gli standard di consultazione. Gli indigeni vengono sfrattati dalle loro terre e quando tentano di rimpossessarsene o di reclamare il loro diritto rischiano la vita. Emblematico il caso del 1991, quando 20 indigeni Nasa, compresi donne e bambini, furono uccisi con la complicità della forza pubblica nel massacro del Nilo. Non solo. Anche nel 2008, anno in cui è partita la Minga, la mobilitazione nazionale di resistenza indigena e popolare che denunciava le violazioni dei diritti umani e il genocidio fisico e culturale degli indigeni, si sono verificate uccisioni, aggressioni e intimidazioni.

Passata l’onda della grande contestazione, oggi gli indigeni lavorano al rafforzamento del proprio autogoverno attraverso i cosiddetti ‘piani di vita’. Questi sono diversi dai piani di sviluppo perché cercano di ristabilire un modello di vita in armonia con la madre terra. “Lavoriamo per recuperare i metodi di produzione tradizionale, il rafforzamento dell’agricoltura di sussistenza e della sovranità alimentare. Cerchiamo di vendere, con difficoltà a trovare mercato, i prodotti alimentari che noi stessi trasformiamo, e vorremo valorizzare i prodotti a base di foglie di coca, stigmatizzati a causa del narcotraffico”, racconta Alejandra Llano.

Un altro aspetto su cui si basa la lotta indigena è l’educazione: fino a pochi anni fa gli educatori venivano per l’80 per cento dall’esterno, ora è il contrario: “si studia l’identità indigena e puntiamo ad avere un sistema educativo gestito da noi anche dal punto di vista amministrativo”, spiega Llano, che ha sottolineato, nel libro presentato a Roma, l’importanza dell’istruzione e di un sistema sanitario autonomo.”Ne vorremmo uno nostro che includa anche la medicina tradizionale. Purtroppo ci mancano i fondi per fare attività di ricerca scientifica in questo campo”, racconta.

Il processo dell’autogoverno, infine, vede nelle donne e nei giovani dei protagonisti da valorizzare. La presenza femminile nella vita politica e sociale è aumentata negli ultimi anni e si è riusciti a ridurre la violenza contro le donne. Riguardo ai giovani, le assemblee e i dibattiti contribuiscono a tenerli legati alla comunità e ad evitare che vengano reclutati dalla guerriglia. Molti di loro entrano a far parte della Guardia Indigena, organismo non armato che vigila sul territorio. “Abbiamo dieci guardie per ogni ‘vereda’, le piccole comunità che nel Cauca sono circa 4000, e ognuna è dotata solo di un bastone come simbolo dell’autorità nonviolenta”, conclude l’autrice.

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