Piccoli schiavi al servizio dell’Occidente

Babbo Natale forse non lo sa, ma molti dei regali che porta nel sacco sono l’ultimo atto di una storia maledetta. Giocattoli, scarpe da ginnastica, camice e pantaloni destinati ai bambini occidentali sono stati confezionati da altri bambini, molto meno fortunati. Piccoli schiavi, che lavorano, 14-20 ore al giorno, anche sette giorni alla settimana, pigiati in stanzoni bui saturi di colle, solventi, mastici velenosi. Senza potersi alzare, alla fine della giornata dormono sotto i macchinari per essere pronti alle prime ore del mattino dopo, per una paga da fame.

L’80% dei giocattoli venduti con i marchi di ditte europee, come Mattel, Lego e Chicco provengono dalla Cina, dall’Indonesia e dalla Tailandia. Una catena perversa che parte dalle multinazionali e arriva a quelle ditte appaltatrici, e subappaltatrici, che garantiscono la confezione del prodotto ai costi più bassi. E il fatturato cresce, sulla pelle di una manodopera schiavizzata, rappresentata soprattutto da bambini e bambine. Questo esercito di piccoli viene reclutato nelle zone rurali più povere, con la promessa di un misero stipendio. Destinazione: un posto da operaio in strutture spesso malsane e pericolose, gestite come prigioni per lavori forzati, senza il rispetto delle più elementari norme di sicurezza.

E le floride industrie occidentali approfittano di tutto ciò. Incuranti del fatto che in tali condizioni si possono verificare delle catastrofi.

Il 19 novembre 1993 un incendio ha colpito la Zhili, una fabbrica di giocattoli cinese, provocando la morte di 84 persone, tra cui molti minorenni. In quell’occasione (come si legge in “Sulla pelle dei bambini. Il loro sfruttamento e le nostre complicità” Editrice Missionaria Italiana, 1994, libro utile e ricco di documentazione) si è saputo che la Zhili produce giocattoli per l’industria italiana Chicco. Le indagini hanno appurato che l’incendio era stato provocato da un cortocircuito, e che le fiamme avevano causato la morte di un numero così elevato di persone perché le uscite erano bloccate. Davanti alle vie di fuga c’era del materiale accatastato.

Nello stesso anno, il 10 maggio, è bruciata a Bangkok un’altra fabbrica di giocattoli, la Kader Industrial Limited, provocando 189 morti e 400 feriti. La maggior parte delle vittime erano giovani donne e studenti impiegati come lavoratori stagionali. Le porte erano state sprangate per ordine della direzione, e sarebbero dovute rimanere così fino a quando non fosse stata raggiunta la produzione stabilita.

Anche la Nike, la nota industria di scarpe da ginnastica statunitense, si avvale del lavoro di bambini, soprattutto indonesiani. La Hardaya Aneka Shoes Industry, nota come Hasi e con sede a Jakarta, impiega 6.700 operaie che sfornano ogni ora 2.000 paia di scarpe Nike. La maggior parte delle operaie sono ragazze di sedici anni. Lavorano in uno stabilimento respirando un’aria satura di esalazioni di vernici e mastici. La temperatura può superare i 40 gradi . Dormono in baracche di proprietà della fabbrica, sei persone in uno spazio di tre metri per tre, sdraiate sul pavimento. Il vitto è fornito dalla ditta, che trattiene per questo una quota sulla busta paga. E quello che resta basta a malapena a pagare il trasporto dalla baraccopoli al posto di lavoro.

Tutto ciò fa gridare allo scandalo. Eppure, solo da poco, e nel capitalismo avanzato, esistono normative che tutelano il lavoro, anche minorile. Da che mondo è mondo i genitori hanno contato sul contributo dei figli e delle figlie nei lavori dei campi e in quelli domestici, e hanno fatto affidamento sui i soldi portati a casa dai propri ragazzi non appena ne avessero avuto la possibilità. Senza per questo violare necessariamente le norme del rispetto della persona umana. Nell’ultimo rapporto Unicef, dedicato al lavoro minorile, si cerca di fare il punto su questo problema. “Considerare inaccettabile ogni genere di lavoro minorile significa confondere e banalizzare la questione, ostacolando l’eliminazione definitiva degli abusi. Per questo occorre distinguere tra lavori benefici e lavori intollerabili, e rendersi conto che gran parte del lavoro minorile si colloca in una zona grigia, a metà fra questi estremi”.

E’ un fatto, comunque, che nei paesi in via di sviluppo i bambini lavoratori sono uno su quattro. Dai dati dell’Unicef si scopre che la maggioranza dei piccoli lavoratori vive in Asia (circa la metà), in Africa e in America Latina. Dei 190 milioni di bambini lavoratori nella fascia di età dai 10 ai 14 anni, tre quarti lavorano sei o più giorni alla settimana, e la metà 9 o più ore al giorno. Si possono considerare lavoratori coatti, dei veri e propri bambini-schiavi? Una cosa è certa: a questi ritmi serrati, nessuno di loro avrà il tempo di riposarsi e di giocare. Tantomeno di studiare. Riproducendo così, di generazione in generazione, la condizione di ignoranza e di povertà che è alla radice di questo sfruttamento.

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