Più donne, più guadagno

Sorpresa. Le imprese femminili – quelle guidate da una donna, o in cui la maggioranza delle azioni o del capitale sia detenuta da una donna – crescono, si espandono anche in settori non legati alle tradizionali attività di cura (salute, insegnamento, assistenza…), e soprattutto ottengono ottimi risultati economici, quanto e più di quelle guidate da uomini. Che restano, però, la grande maggioranza. È il risultato di una ricerca condotta su 621 piccole e medie imprese italiane da Paola Dubini e Lucrezia Songini, docenti dell’Università Bocconi, sul “Glass Ceiling in SMEs: When Women are in Command”: cioè su quel soffitto di vetro che ancora impedisce alle donne di occupare posizioni di rilievo nel mondo imprenditoriale. Le cifre della ricerca dimostrano innanzitutto che la presenza del sesso femminile nell’industria è in crescita: dieci anni fa il capitale detenuto dalle donne era del 13 per cento, e solo nel 5,9 per cento dei casi era in mani femminili. Oggi il 37 per cento degli azionisti nelle imprese campione è costituito da donne, che però detengono solo il 20 per cento del capitale. Le Pmi a maggioranza femminile rappresentano invece l’8,9 per cento di quelle considerate. Ma la sorpresa (che per chi conosce questo settore è tale solo a metà) è che le imprese femminili sono presenti in tutti i settori di mercato.

“In genere tendono a essere considerati femminili – e dunque marginali – quei campi che riguardano le attività di servizi e assistenza alla persona”, spiega Paola Dubini, docente di Economia aziendale all’ateneo milanese “e la letteratura sul tema sostiene che l’imprenditorialità femminile trovi maggiore spazio proprio in questi settori”. Basta però ribaltare il punto di vista per scoprire una realtà diversa: “Noi abbiamo condotto l’indagine partendo da una popolazione di Pmi, non dai settori di appartenenza”, continua Dubini. Notando che le imprese al femminile occupano spazi importanti anche nel settore manifatturiero e dei servizi. Resta invece confermato il dato secondo cui le imprese familiari, rispetto ad altre tipologie di impresa, hanno un ambiente più favorevole alla crescita delle donne manager. “Anche se ancora oggi le proprietà si passano soprattutto agli eredi maschi, mentre le figlie vengono con una certa frequenza liquidate con denaro o con altre proprietà”, continua Dubini.

A segnare ancora il confine dell’esclusione è invece l’ingresso nel Consiglio di Amministrazione: sono sempre le imprese familiari ad avere una maggiore incidenza di amministratori delegati donne (8,8 per cento contro il 4,8 per cento delle altre), ma si tratta comunque di eccezioni. Donne tenute lontane dai luoghi deputati alle decisioni, per tanti motivi: “A volte è un fattore che nasce dalle scelte scolastiche (dettate dal padre): le ragazze seguono studi che rendono più difficile entrare in questo mercato del lavoro”, continua Dubini. Ma anche quando fanno ottime scuole, prima o poi le ragazze toccano con mano il fatto che comunque il “soffitto di vetro” impedisce loro di guadagnare quanto i colleghi maschi, anche di pari grado, o quanto il marito. E allora, nell’economia di una famiglia, la scelta s’impone per motivi pratici: sarà la persona che ha meno prospettive professionali a sacrificarsi, a seguire il coniuge nei suoi spostamenti, ad avere cura di figli e genitori anziani. E addio azienda.

Quando però le condizioni lo permettono, le imprenditrici si fanno valere. “C’è tutta una letteratura secondo cui le aziende femminili sono più deboli dal punto di vista economico. In realtà la nostra ricerca mostra che quando le imprese hanno una maggioranza di donne, le attività vanno bene”, spiega la docente, con un ritorno sugli investimenti del 7,49 per cento, contro il 7,14 delle imprese maschili, e una redditività del capitale proprio dell’8,66 per cento.Merito, forse, anche di uno stile di leadership basato sul consenso, più che sul potere. “Abbiamo isolato un gruppo di aziende con Amministratore delegato donna, e abbiamo chiesto come vengono prese le decisioni, soprattutto in momenti delicati nella vita di un’azienda com’è quello della successione. Ebbene, le donne riescono a tenere presenti i diversi interessi delle parti in causa, sanno mediare, sanno valutare i tanti punti di vista”. Il risultato è che alla fine sono in genere tutti soddisfatti.

Per questo, sostengono le due autrici della ricerca, varrebbe la pena che il mondo imprenditoriale aprisse con più convinzione le porte a queste risorse. E anche quello politico potrebbe promuovere strumenti di sostegno più efficaci, soprattutto in alcuni particolari momenti della vita professionale di una donna: “dopo la maternità – conclude Dubini – o quando i figli già grandi lasciano una madre troppo ‘vecchia’ per il nostro mercato del lavoro”.

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