Polveriera Iraq

“Il mio soggiorno qui ad Amman è provvisorio. In Iraq e a Baghdad tornerò presto. È quella la mia terra. È lì che voglio vivere con mia moglie e far crescere i miei due bambini”. Ismaeel Dawood ha le idee chiare. Attivista iracheno, Ismaeel vive con la famiglia in Giordania da circa un anno. Ed è consulente di “Un Ponte per…”, l’associazione divenuta famosa dopo il rapimento delle sue due volontarie Simona Pari e Simona Torretta e nata nel 1991 subito dopo la fine della prima guerra del Golfo. “Con lo scopo”, si legge nel sito web, “di promuovere iniziative di solidarietà in favore della popolazione irachena, colpita dalla guerra e in opposizione all’embargo a cui il paese è stato per lungo tempo sottoposto”. La storia di Ismaeel è quella di molti iracheni “spiazzati” dal passaggio dalla feroce dittatura di Saddam al caos generato dall’intervento angloamericano. Lo abbiamo incontrato nella sede di “Un Ponte per…” ad Amman. Ecco il suo punto di vista sulla questione irachena.Ismaeel, perché ha deciso di lasciare l’Iraq?”Non l’ho deciso io. Essendo un laico (anche se con un passato da fervente religioso, ndr.) che ha solo il sogno di un paese ‘normale’, sono stato più volte minacciato di morte. Ho quindi di trasferirmi ad Amman con la mia famiglia, ma la mia speranza è quella di tornare fra qualche mese”.Chi l’ha minacciata?”Le intimidazioni sono state sempre anonime. Ma ho pochi dubbi su chi sia stato: persone interne o vicine al fondamentalismo islamico”.E adesso qual è il suo lavoro?”Grosso modo mi occupo delle stesse cose che facevo a Baghdad. Per ‘Un Ponte per…’ seguiamo (anche la moglie lavora per l’associazione italiana, ndr.) un progetto per la tutela dei diritti umani nelle carceri irachene. Tra gli obiettivi dell’iniziativa quelli di sostenere le organizzazioni irachene per la tutela dei diritti umani, contribuire alla difesa legale dei detenuti, favorire l’istituzione di servizi post carcerari e sensibilizzare l’opinione pubblica italiana sul tema del rispetto dei diritti umani e della legalità internazionale”.Tornando al suo paese le notizie sull’Iraq che arrivano attraverso i media in Italia e in Occidente non sono confortanti. Si parla dell’imminente scoppio di una guerra civile. Come stanno le cose?”In realtà a certi livelli la guerra civile già esiste. Dopo la cacciata di Saddam il fondamentalismo – prima tenuto sotto controllo dal dittatore – è uscito fuori in tutta la sua potenza e oggi ci troviamo in una situazione paradossalmente più caotica di prima”.Vuol dire che si stava meglio con Saddam?”No, non penso questo. Dico solo che ora se per esempio si gira per Baghdad non si è più sicuri come lo si era durante il regime. Un iracheno non sapeva cosa fosse un kamikaze con l’intenzione di farsi saltare in aria per strada o in una moschea. E non correva neanche il rischio di rimanere ucciso dal colpo partito per sbaglio da un fucile di un militare statunitense o di un insurgent”.Insomma si è passati dalla dittatura a un’anarchia di fatto?”Le cronache di tutti i giorni dicono questo. Anche perché il nuovo governo non riesce a controllare tutto il territorio e le leggi, quando vengono approvate in parlamento, non si possono applicare in tutto il paese”.Se rimuovere Saddam con la forza non è stata una mossa azzeccata per l’Iraq, quale sarebbe stata la sua ricetta per far finire la dittatura?”A questa domanda non ho risposta. Quello che è certo che in Iraq per passare da una dittatura a una democrazia non erano necessarie le bombe. Il cambio è stato troppo veloce. Saddam, che io, per quello che mi era consentito fare, ho sempre contrastato, come tutti i dittatori non faceva emergere (soprattutto con modi illeciti) tensioni sociali. Che con la caduta del regime sono cresciute ancora di più a causa dei leader fondamentalisti che hanno strumentalizzato lo scontro fra sunniti e sciiti. Scontro che tra le persone comuni non esiste”.Cosa potrebbero fare gli Stati Uniti per risolvere ora la questione?”Come detto la situazione è molto delicata. Alcuni pensano che sia il caso che se ne vadano. Io non sono di questo avviso. Al momento, seppur piccolo, esercitano un tipo di controllo che evita che la situazione degeneri del tutto. Quello che è certo è che i primi a dover avere le idee chiare dovrebbero essere proprio gli Stati Uniti. Ma per loro stessa ammissione non hanno più una strategia ben precisa”.Se si parla di Iraq, in Italia i nostri politici non fanno altro che discutere sull’opportunità o meno di ritirare le nostre truppe. Cosa ne pensa?”Ho sentito dire che gli iracheni non sopporterebbero i militari italiani. Questo non è vero: i vostri soldati non sono visti come nemici del popolo. Il problema, però, è un altro: sono davvero utili e necessari? La risposta è semplice: no. Da mesi le truppe italiane non svolgono in pratica alcun ruolo importante: rimangono quasi sempre chiusi nelle loro strutture e ormai non sono neanche più di supporto al nuovo esercito iracheno. Insomma, senza volerli cacciare, credo che il governo italiano farebbe bene a richiamarli a casa”.

LASCIA UN COMMENTO

Please enter your comment!
Please enter your name here