Prevenire con piccole dosi

Prevenire è meglio che curare. Uno slogan semplice che ha conquistato la ribalta anche della medicina ufficiale, prima di tutti in campo cardiovascolare, e ora anche in oncologia. Tanto che negli Stati Uniti esistono ospedali come l’MD Anderson di Houston, nel Texas, che hanno dedicato un’intera divisione alla branca della ‘chemoprevenzione’. Con questo termine, che unisce i concetti di medicina preventiva e chemioterapia, si indica l’intervento su pazienti affetti da tumori precoci o ad alto rischio di neoplasia con farmaci a bassa tossicità e per periodi prolungati.L’esempio più noto è quello dell’uso di aspirina, Sulindac o di altri farmaci anti infiammatori in famiglie affette da poliposi e pertanto soggetti all’insorgenza di tumori del colon. Alcune sostanze proposte in chemoprevenzione sono i retinoidi, gli anti-ossidanti, gli inibitori di proteasi. La loro funzione è di reiterare lo stato differenziato, proliferante delle cellule tumorali bersaglio (nel caso del tamoxifen o dei retinoidi), di diminuire l’infiammazione (l’aspirina) o di catturare i radicali liberi (gli anti-ossidanti). Da tempo il tamoxifen è entrato nella pratica clinica per proteggere le donne ad alto rischio di tumore mammario. La dose fin ora utilizzata è di 20 milligrammi al giorno. Tuttavia, come quasi tutti i farmaci, anche il tamoxifen ha i suoi effetti collaterali, il più grave è quello di indurre in alcune pazienti trattate il tumore dell’endometrio (che è però raramente fatale). Anche il sistema cardio-circolatorio può risentire della terapia e la qualità di vita rischia di essere ridotta per gli effetti del farmaco sull’apparato genitale. Il gruppo di ricerca clinica di Andrea Decensi, nella squadra di Umberto Veronesi all’Istituto Europeo di Oncologia di Milano, ha proposto di abbassare i livelli di farmaco somministrato a cinque o addirittura un milligrammo al giorno. Lo studio, finanziato anche dall’Airc, che ha coinvolto per quattro settimane 120 donne che risultavano alla diagnosi positive per il recettore estrogeno, è appena stato pubblicato sulla prestigiosa rivista del National Cancer Institute americano. Per poter quantificare a breve termine l’effetto biologico del farmaco è stato usato quello che si definisce “ un marker surrogato” ovvero il Ki 67. Questa è una proteina che viene prodotta da cellule in proliferazione e quindi, in un tumore, ne indica la crescita. I ricercatori hanno evidenziato che le dosi più basse di tamoxifen riducono l’espressione di Ki 67 in maniera paragonabile a quelle standard, suggerendo un’efficacia paragonabile a quella tradizionale. Inoltre sono state analizzate anche alcune molecole presenti nel sangue, come la globulina che lega gli ormoni sessuali, e marcatori di malattie cardiovascolari: colesterolo, trigliceridi, proteina ultrasensibile C reattiva, antitrobina III. I markers del sangue dimostrano che effettivamente, diminuendo il tamoxifen, i fattori correlati al rischio di tumori secondari e ai problemi di tipo vascolare diminuiscono d’intensità rispetto al trattamento ad alte dosi. In conclusione, i risultati pubblicati dal team italiano dimostrano che si può prevenire la crescita tumorale anche al dosaggio basso di tamoxifen limitando così gli effetti collaterali. Perché non è stata condotta prima una ricerca così? Per un motivo semplice: ogni studio clinico coinvolge molte pazienti, dura tempo ed è costoso. Quando si trova un effetto importante come quello del tamoxifen sul tumore del seno, non si aspettano altri lunghi studi sul dosaggio, si incomincia con il dosaggio che funziona. Il gruppo di Milano, evidentemente, ha avuto a cuore la qualità di vita delle donne. Con questo studio ha gettato le basi per uno studio più ampio che coinvolgerà molte altre pazienti per poter dimostrare in modo risolutivo che il dosaggio basso “funziona” clinicamente. * laboratorio di Oncologia Molecolare IST Genova

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