Pubblico o privato?

    Anche i più strenui difensori della centralità dell’intervento dello Stato nell’economia sono costretti oggi ad ammettere che in tutti i paesi, sia industrializzati sia del terzo mondo, il confine fra pubblico e privato si è spostato in favore del secondo.

    Tale fenomeno, partito negli USA durante la presidenza Reagan (ma le premesse erano già contenute in ipotesi teoriche sviluppate negli anni Sessanta), è poi approdato in Europa nel Regno Unito con le politiche di privatizzazione dell’epoca thatcheriana, e successivamente si è allargato agli altri paesi industrializzati del vecchio continente.

    In Italia quest’ondata, che presenta connotati al tempo stesso ideologici (che cosa dev’essere considerato pubblico e cosa privato), politici (qual è il ruolo dello Stato), industriali (lo sviluppo della concorrenza nei mercati) finanziari e sociali (chi deve pagare il costo dei servizi e delle imprese pubbliche, specie se gravanti sulla collettività), è arrivata in ritardo, e sta esplodendo solo oggi. Il nostro paese infatti, a differenza di quelli a più antica industrializzazione, sconta una arretratezza strutturale nel settore dei servizi, sia pubblici che privati, per anni protetti dagli effetti della concorrenza grazie al pervasivo intervento di regolamentazione dello Stato.

    Che cos’è un bene pubblico?

    Quali sono le ragioni che tradizionalmente hanno giustificato l’intervento pubblico? Si è sempre sostenuto che, se si ha a che fare con un bene pubblico, è necessario e opportuno correggere d’autorità i risultati dell’operare del meccanismo del mercato, dove il prezzo viene determinato dalla domanda e dall’offerta. Un bene è è considerato pubblico quando presenta, in misura rilevante, le seguenti caratteristiche:

    – non rivalità e non escludibilità nel suo consumo (non posso impedire che un certo intervento pubblico, come la difesa o l’illuminazione di una piazza, non si estenda a tutti i cittadini: nessuno ne può essere escluso, né costa di più farne godere tutti);

    – esternalità (quando si creano situazioni per cui i costi e i benefici di una certa azione non passano attraverso uno scambio monetario di mercato. Un esempio tipico è quando un residente fuori da una grande città vi si reca occupando gratuitamente uno dei – rari – posti auto dei parcheggi cittadini: in questo caso l’uso è goduto da una persona diversa da chi paga l’ICI, che serve anche per tenerli in funzione. Un’altro esempio è quello dell’inquinamento: chi inquina gode dei benefici della sua azione ma scarica i costi sugli altri.)

    Mentre si registrano pochi contrasti riguardo alla prima caratteristica, perché interessa solo alcuni beni limitati, chiamati infatti pubblici “puri”, maggiore discussione è sorta sulle esternalità. Le conseguenze di politica economica della teoria tradizionale – secondo la quale se ci sono esternalità è comunque compito dello stato occuparsene – sono state messe in dubbio negli anni Sessanta da un economista, Ronald Coase, che trent’anni dopo avrebbe vinto il premio Nobel per l’economia proprio grazie a questo contributo.

    Coase dimostrò che le esternalità non esistono in assoluto, ma riguardano il modo in cui si possono affrontare i problemi. Il vero punto della questione non è chi debba farsene carico, se lo Stato o il privato, ma quali soluzioni si possono trovare per minimizzarne i costi. Soprattutto i cosiddetti “costi di transazione”, che sono la vera causa dell’esternalità. I costi di transazione sono tutti i costi connessi con uno scambio diversi da quelli necessari a produrre i beni scambiati. Una definizione astratta, che però riguarda la vita quotidiana di tutti noi. Per esempio, per ottenere una patente di guida, o anche per comprare un computer o una casa, non sopportiamo solo il costo del bene che paghiamo nello scambio, ma dobbiamo prima informarci su come si fa ad averlo (in quali negozi o uffici andare, quali documenti sono necessari, quali sono i prezzi migliori esistenti sul mercato, quali sono le società che offrono maggiori garanzie), poi verificare che il contratto che stipuliamo sia corretto e, più tardi, che esso sia stato effettivamente rispettato. Questi costi possono essere anche molto elevati (viaggi inutili, intere giornate perse a fare la fila) anche se solo in pochi casi essi si riflettono nei prezzi. I beni caratterizzati da esternalità sono dunque tali perché implicano elevati costi di transazione, che rimangono sia che transitino dal mercato sia che intervenga lo Stato. In altre parole, Caose ha invertito l’onere della prova: di fronte a un’esternalità bisogna sempre individuare la soluzione migliore che minimizza i costi di transazione, e non è affatto detto a priori che questa sia proprio l’intervento pubblico.

    Largo al privato ma in libero mercato

    I vantaggi del passaggio dal pubblico (che si suppone inefficiente perchè carente di incentivi a ben operare) al privato (che dovrebbe essere efficiente perché vincolato al perseguimento del profitto) non sono dunque scontati: ciò che importa tende ad essere non più la scelta astratta del soggetto che svolge l’intervento, ma il grado di concorrenza esistente nel mercato in cui esso opera. Se, ad esempio, un servizio pubblico è gestito in monopolio e non si interviene sul relativo mercato, la sua privatizzazione si trasforma semplicemente in un trasferimento di rendita dal pubblico al privato. Questa è la ragione per cui un reale miglioramento del benessere sociale si realizza se alla privatizzazone delle imprese pubbliche si accompagna anche una strategia di liberalizzazione del mercato, cioè la rimozione progressiva di tutte le barriere che limitano il suo accesso da parte di nuove imprese. Infatti la concorrenza comporta sempre prezzi più bassi e una maggiore possibilità di scelta da parte degli utenti e dei consumatori che, se non sono soddisfatti, possono sempre cambiare fornitore, cosa che con il monopolio non succede.

    Allo spostamento del confine fra pubblico e privato corrisponde così un mutamento delle funzioni attribuite allo Stato: sempre meno gestione diretta e sempre più interventi sulla struttura delle regole del gioco concorrenziale, in modo da consentire al sistema di mercato, superiore, perchè automatico, a quello delle scelte politiche decise dall’alto (in cui non c’è alcuna garanzia che siano “buone” o “cattive” in sè), di ben operare. Si spiega così la nascita nel nostro paese, in ritardo rispetto agli altri paesi industrializzati, delle autorità indipendenti di regolamentazione e tutela della concorrenza (Antritrust, Garante per l’editoria, Autorità di controllo per i principali settori dei servizi essenziali).

    Il lavoro da svolgere in Italia in tema di liberalizzazione dei mercati è ancora enorme. Interi settori dell’economia hanno prosperato e sono stati protetti fino ad oggi dalla legislazione e dalle attività dello Stato – si pensi non solo alle telecomunicazioni o alle industrie assistite (la protezione significa sempre prezzi più alti del normale, sviluppo di grandi strutture burocratiche e generose sovvenzioni pubbliche) – ma anche ai mercati delle professioni cosiddette “libere”, ai taxi, alla distribuzione commerciale. Grazie a vincoli normativi pubblici che risalgono all’epoca delle corporazioni, gli operatori di questi mercati hanno mantenuto spesso diritti (che molti oggi ritengono incompatibili con la partecipazione dell’Italia all’Unione Europea) che difficilmente possono essere ricondotti ad un interesse pubblico.

    Dov’è l’interesse pubblico nell’obbligare un cittadino a pagare ad un privato – il notaio – una quota del costo di acquisto di un immobile per un servizio che potrebbe benissimo essere svolto da un ufficio pubblico a costi molto più ridotti, o ad impedire che un cittadino riconosca da una targa se l’avvocato presso cui intende rivolgersi è specializzato in diritto amministrativo, civile o penale, o a consentire il commercio delle licenze dei taxi (il cui prezzo di mercato è oggi a Roma intorno agli 80 milioni, ma è destinato a raggiungere i 200 milioni con l’approssimarsi del Giubileo) solo grazie alla drastica limitazione amministrativa del loro numero, o limitare l’apertura di supermercati che offrono servizi migliori a costi più bassi dei piccoli esercizi commerciali di quartiere o, ancora, impedire che giornali e sigarette vengano venduti liberamente anche dalle stazioni di servizio delle auto (come avviene in tutt’Europa) ?

    Produzioni pubbliche o private?

    Da quando esistono gli Stati moderni con i loro apparati e funzioni, i governi si sono costantemente posti l’alternativa di produrre direttamente un servizio pubblico o di affidarlo a terzi. Storicamente la scelta si è basata su un confronto fra costi e benefici delle due opzioni, compresi i rischi che quel servizio venga gestito male o qualcuno sia in grado di approfittarne. Nel Rinascimento, ad esempio, la difesa veniva affidata ad eserciti privati di ventura, che costavano meno di un’organizzazione pubblica fissa, perché le guerre, a causa dell’inverno che bloccava le comunicazioni, si svolgevano solo in un limitato numero di mesi l’anno. Questa soluzione fu preferita fino a che i capitani di ventura, grazie alla domanda crescente (tutti gli Stati, scoperti i vantaggi, iniziarono a richiedere le loro prestazioni), alzarono progressivamente il prezzo del servizio, reclamando anche benefici extra, come ad esempio a Venezia un posto al Gran Consiglio con relativo palazzo sul Canal Grande, e così si ritornò progressivamente ad un sistema di difesa militare pubblica. Quest’alternativa vale ancora oggi in tutte le organizzazioni, sia private che pubbliche, le prime quando debbono decidere se svolgere in proprio una certa lavorazione o affidarla all’esterno, le seconde se vengono poste nell’alternativa di offrire, ad esempio, il servizio di mensa scolastica tramite propri cuochi o attraverso un appalto a ditte private.

    Qui non esistono soluzioni preferibili in astratto, ma è necessario sempre valutare – in questo la pubblica amministrazione si deve comportare esattamente come un imprenditore privato- tutti gli elementi rilevanti. E’ vero infatti che, a differenza di quella svolta dai privati, la produzione pubblica non richiede la formazione di un profitto (e quindi dovrebbe costare meno), ma è altrettanto vero che mancano anche gli incentivi all’efficienza, perché nel settore pubblico il posto di lavoro è garantito, e quindi, al pari delle imprese monopolistiche, c’è ampio spazio per ritagliarsi rendite di posizione (alti salari, vita tranquilla, pochi controlli sul prodotto, ecc.) che inevitabilmente finiscono per ripercuotersi sui cittadini-utenti.

    Questa alternativa si ripresenta oggi nella questione, discussa attualmente in Parlamento e nella Commissione Bicamerale per le Riforme Istituzionali, delle possibili forme di gestione dei servizi pubblici di competenza degli enti locali. Si assiste ad uno scontro fra due posizioni che cercano di prevalere l’una sull’altra. Da una parte ci sono le aziende pubbliche municipalizzate che, ritenendosi pronte ad affrontare la concorrenza sul mercato, chiedono il diritto di svolgere attività (tramite concessione) fuori dagli ambiti territoriali dove storicamente operano: L’ACEA di Roma, l’AMGA di Genova o l’AEM di Milano si candidano a gestire servizi anche per altri enti locali, magari anche in altre province o regioni. Dall’altra le associazioni dei concessionari dei servizi privati, che vedono in esse un pericoloso concorrente che combatte con armi politiche di cui loro non dispongono.

    La soluzione di questo conflitto è teoricamente semplice ma politicamente assai più complessa: è necessario aprire questi mercati alla piena e libera concorrenza, ma vanno stabilite regole chiare e valide per tutti. Le aziende municipalizzate hanno il diritto di concorrere dove meglio credono, ma debbono essere vietate le sovvenzioni ad esse spesso garantite dai comuni (che sono i loro proprietari); i rinnovi delle concessioni, siano esse state affidate in passato ad aziende pubbliche o a privati, vanno svolti attraverso gare trasparenti ed orientate al perseguimento dell’efficienza. In altre parole, se si liberalizza veramente questo mercato, tutti i soggetti che vi operano debbono rischiare di perdere le loro posizioni storicamente consolidate. E questo, ovviamente, non fa piacere a nessuno.

    Non sempre, però, l’assunzione di responsabilità da parte dei privati comporta un conflitto con le organizzazioni pubbliche. Se il servizio in questione è un bene essenzialmente privato e l’intervento pubblico consiste solo nella garanzia che esso venga comunque offerto, lo sviluppo economico tende a risolvere da sè il problema. Alcuni servizi, come ad esempio i mattatoi o, prima ancora, i forni per la panificazione, sono stati infatti offerti dagli enti locali dall’inizio del secolo perchè non esistevano garanzie di una loro fornitura efficiente diffusa sul territorio da parte dei privati. Organizzatosi il mercato privato, queste funzioni sono divenute di fatto private, senza bisogno di interventi legislativi o di privatizzazioni.

    Privato sì, ma volontario

    Da più parti si ritiene che, soprattutto in molti servizi a carattere sociale, la soluzione all’alternativa secca fra produzione pubblica e produzione privata risieda nel cosiddetto terzo settore, cioè nel non-profit (volontariato) che, pur operando con criteri privatistici – si tratta di organizzazioni non pubbliche – evita l’inconveniente della ricerca del profitto, sostituendo ad esso motivazioni di tipo etiche, coincidenti per lo più con l’interesse pubblico. Ciò è vero solo in parte, perché il motivo etico non esclude, di per sé, che il volontario non operi anche nel proprio interesse. Infatti è sempre necessario un controllo da parte di un’autorità pubblica per accertare che i risultati delle organizzazioni non-profit a cui è stato affidato un certo servizio siano rispondenti alle finalità per cui questo è stato istituito.

    Per esempio, bisogna verificare che i contributi pubblici normalmente assegnati a queste organizzazioni coprano solo una frazione dei costi sostenuti, perchè il vantaggio economico sta nel fatto che una parte dell’attività, in quanto volontaria, sia corrisposta a titolo gratuito. Si deve, in sostanza, accertare che l’organizzazione del volontariato che svolge un servizio pubblico si comporti in modo significativamente diverso dalle normali imprese private che ricevono un appalto. Il volontariato deve insomma offrire servizi con elevato contenuto etico, e non essere un semplice sotterfugio per assegnare appalti in modo non conforme alle regole della concorrenza.

    Meno leggi e più federalismo

    Si sostiene spesso, a ragione, che l’Italia è gravata da un numero esorbitante di leggi – si parla di 160 mila, contro le 10-20 mila degli altri paesi europei- che bloccano il processo di ammodernamento della pubblica amministrazione. Recentemente, alcuni provvedimenti governativi hanno cercato di intervenire stimolando una “delegificazione”, cioè una riduzione dei compiti che la legge affida al pubblico e un loro trasferimento a imprese sul mercato o a soggetti pubblici che operano secondo criteri privatistici.

    Si tratta dunque di un altro aspetto, non secondario, dello spostamento del confine fra pubblico e privato. Ma che garanzie ci sono che questo processo si realizzi veramente ? Il mercato non si impone per legge, sia pure di delegificazione, anche perchè dietro ogni norma protettiva si celano sempre interessi concreti – la teoria economica li chiama gruppi di interesse o lobbies – che hanno prosperato grazie ad essa. E’ probabile che questi gruppi, perduto il paracadute delle vecchie norme che garantivano loro trattamenti “speciali”, reagiscano, svolgendo pressioni sul Parlamento per trovare nuove norme, magari più snelle, che non tocchino i loro privilegi, le loro “rendite di posizione”. Per questo motivo, la politica della delegificazione, in sé lodevole, deve essere valutata con molta cautela.

    Anche la trasformazione della forma di Stato da centralizzato in federale può essere vista, infine, come una delle possibili modalità di spostamento del confine fra pubblico e privato. Passare da un sistema in cui lo Stato impone un’uniformità di funzioni e servizi a tutti i cittadini, indipendentemente da dove essi risiedono, a un sistema decentrato, in cui la scelta sulle modalità la quantità e la qualità di beni pubblici da offrire è affidata alle collettività locali costituisce infatti un esempio significativo di spostamento di questo confine. Ciò che importa è la rottura dell’idea dell’uniformità di offerta dei beni pubblici locali, a cui si sostituisce un ampliamento della scelta da parte dei cittadini, che possono in teoria decidere se, quanto e come usufruire di un certo servizio – prima obbligatoriamente imposto, ma anche finanziato, dallo Stato. Nell’ipotesi federalista, le scelte sono invece subordinate alla piena responsabilità, in primo luogo fiscale, degli elettori- contribuenti, perchè i cittadini si devono fare carico dei costi di tali scelte, e non scaricare sulla collettività nazionale il relativo onere. E’ pronta l’Italia, che include vaste aree sottosviluppate abituate da anni a dipendere finanziariamente dallo Stato centrale, ad accettare questo mutamento istituzionale ?

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