Categorie: SocietàTecnologia

Quale futuro per le smart cities

Ma che cosa è una smart city? In quale momento un agglomerato urbano cessa di essere un insieme di palazzi, di strade e di individui per diventare una città sostenibile, sicura, vivibile, intelligente? Definire il concetto non è facile. E lo dimostra la disparità di opinioni, tutte egualmente sensate, emerse nel corso dell’incontro “Smart and the Cities” organizzato dall’Ambasciata del Canada in Italia. Da una parte e dall’altra dell’Atlantico, infatti, le esigenze degli amministratori, dei tecnici e dei cittadini sono profondamente diverse. E tuttavia un punto di incontro è necessario, se è vero che oltre il 50 per cento della popolazione mondiale vive in una città, che sia smart o meno. E certamente molte delle città in cui vive l’umanità di smart hanno poco o niente.

Sbaglia, per esempio, chi pensa che una smart city sia sinonimo di città digitale, dove la connessione alla rete è una panacea in grado di risolvere qualunque problema. Per Jennifer Keesmaat, Chief Urban Planner di Toronto, per esempio, la priorità è esattamente quella opposta. Togliere il ruolo predominante alla tecnologia per recuperare spazi di coesione sociale (le piazze!), togliere potere alle macchine (abbiamo costruito città su misura per le quattro ruote, anziché per i due piedi) e restituirlo alle famiglie. Aumentare la densità anziché creare spazi vuoti, abitare gli spazi esistenti anziché costruirne di nuovi. Soprattutto, “trasformare il discorso” sulle città per migliorare quelle esistenti. Chiamando a discutere di progettazione urbana gli amministratori, i cittadini, le università, il settore privato, e trovare insieme delle soluzioni.

Dall’altra parte dell’Oceano, in un’Europa la cui densità di popolazione è almeno dieci volte superiore a quella del Canada, il problema è opposto: utilizzare le tecnologie per sfruttare al meglio i pochi spazi rimasti, creare nuove infrastrutture, ottimizzare la connessione, gestire i flussi di dati e soprattutto saper utilizzare quelli generati dagli utenti per migliorare la sostenibilità dell’ambiente urbano (dal consumo di energia alle dinamiche della mobilità). Eppure, come ricorda Paolo Testa, direttore dell’Osservatorio Nazionale Smart City dell’Anci, sino ad oggi l’Italia non ha avuto un approccio strategico al concetto. “Siamo andati in ordine sparso, con una miriade di piccoli progetti disconnessi che non hanno mai davvero fatto sistema”. L’Osservatorio ha mappato le tante iniziative, valutando in quasi 4 i miliardi di euro investiti in oltre 1200 progetti che hanno coinvolto un centinaio di comuni italiani. I temi più toccati? La mobilità, tasto dolente, e l’energia. Poca attenzione invece all’ambiente, al sociale, all’amministrazione. “Quello che è mancato sino ad oggi nella progettazione delle smart cities – continua Testa – è proprio l’idea di città che vogliamo. Gli amministratori dovrebbero avere chiara l’identità specifica delle metropoli che si trovano a governare. Qual è la vocazione economica di Roma, Napoli, Milano? Intorno a questo concetto varrebbe la pena investire con progetti “smart”. Ma a volte si ha l’impressione che questa vocazione non sia affatto chiara, nemmeno ai sindaci. Il percorso in atto verso le città metropolitane è l’ultima occasione che abbiamo per dare un senso economico a queste realtà”.

Ecco allora la provocazione di Lorenzo Benussi, esperto di open data e politiche dell’innovazione del Consorzio Top-ix di Torino: è meglio investire sulle persone o sulle infrastrutture? In altre parole: meglio finanziare le social street o la banda larga? E la gestione dei dati generati dagli utenti: in che modo questa può essere trasparente e non autoritaria? Smettiamo di finanziare le grandi opere – propone Benussi – smettiamo di investire in tecnologia, smettiamo di dare i soldi a chi si dice in grado di coordinare questo processo. La realtà dei fatti dimostra che questa è la strada sbagliata. Meglio invece sostenere una rete di connessioni, e un coordinamento che parta dal basso e non sia top-down. Ma la banda larga è un diritto: come l’acqua, crea lavoro e istruzione, dice John Jung, presidente e cofondatore dell’Intelligent Community Forum/Canada, è la chiave per l’evoluzione e il progresso, è la scintilla che accende le cose (comprese le social street). Da questo non si può prescindere.

È ovvio insomma che è necessario un giusto bilanciamento. Le città, conclude Mauro Annunziato dell’Enea, coordinatore dei progetti EU Smart Cities, vanno pensate come una gigantesca rete di comunicazione, in cui tutto deve essere connesso. I dati prodotti dai cittadini (a partire da quelli più semplici e immediati, come quelli dei contatori di acqua, luce e gas) devono non soltanto servire alle aziende per il conteggio dei consumi, ma anche contribuire a una migliore distribuzione delle risorse, ed essere utilizzati dagli utenti stessi per promuovere politiche di risparmio. Una smart city, insomma, non si costruisce dall’alto, ma solo con la partecipazione attiva dell’intera community.

Credits immagine: Canadian Pacific/Flickr CC

Elisa Manacorda

Giornalista, è direttrice di Galileo, che ha fondato nel 1996 con altri giornalisti e ricercatori. Scrive di scienza e tecnologia per le principali testate italiane. E’ docente al Master SGP della Sapienza Università di Roma, collabora con il Master in Comunicazione della Scienza dell'Università di Ferrara. Con Letizia Gabaglio è autrice di "Il Fattore X" sulla medicina di genere.

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