Quando ammalarsi fa bene

C’è una logica anche dietro ciò che appare senza senso. E’ questo il motto della medicina darwiniana o evoluzionista, la neonata disciplina che si occupa di analizzare il significato delle malattie alla luce dei possibili vantaggi evolutivi. Perché ammalarsi può anche fare bene. Soprattutto quando la malattia sviluppata fa da “copertura” ad altre più gravi, prevenendole. Come nel caso dell’anemia falciforme, una patologia di origine genetica dagli effetti mortali, che tuttavia può diventare un’utile antagonista della malaria.

In che modo? Un portatore sano di anemia falciforme, ossia che possiede una sola copia del gene mutato che provoca la malattia, non solo non sviluppa l’anemia ma è anche tre volte più resistente al contagio della malaria. Non a caso la più alta incidenza di anemia falciforme si registra nelle regioni africane più esposte al rischio malaria. Certo il vantaggio evolutivo si annulla immediatamente qualora il portatore abbia entrambi i geni compromessi: in questo caso, infatti, sarebbe comunque più resistente alla malaria ma morirebbe di anemia.

La stessa cosa accade nel caso della fibrosi cistica, malattia genetica mortale particolarmente diffusa tra gli individui di razza caucasica. Lo studio dell’evoluzione di questa patologia ha dimostrato che i portatori sani hanno meno probabilità di contrarre le febbri tifoidee responsabili del 15 per cento della mortalità caucasica.

C’è dunque un disegno logico dietro l’apparente causalità delle mutazioni genetiche? “Non esattamente”, spiega Randolph Nesse, docente di Psichiatria evoluzionista alla University of Michigan e autore insieme a George Williams del libro “Perché ci ammaliamo” (Einaudi 1999). “L’evoluzione naturale non ha meta, direzione o progetto. Le mutazioni geniche sono del tutto casuali, ma una volta intervenute la selezione mantiene quelle che risultano funzionali alla sopravvivenza dell’organismo e alla sua riproduzione”.

E questo è vero tanto per l’uomo quanto per i batteri. Un microrganismo eccessivamente virulento, che porta alla distruzione dell’organismo ospite prima di essersi diffuso per contagio, sarebbe destinato all’estinzione. Ecco perché le malattie che hanno un alto potenziale di contagio sono virulente, mentre quelle che richiedono la “collaborazione” dell’organismo ospite per diffondersi sono di solito meno aggressive. La malaria uccide perché non ha bisogno dell’individuo contagiato per diffondersi, il raffreddore non uccide perché il contagio avviene da persona a persona.

Secondo George Williams, docente di Ecologia dell’evoluzione alla State University di New York, questa dinamica del contagio potrebbe dimostrarsi un’eccellente strategia terapeutica per talune malattie come l’Aids. “Al momento l’infezione da Hiv si manifesta in una forma virulenta, mortale, solo perché la sua diffusione è alquanto facile”, spiega Williams. “Ma una buona profilassi preventiva che ne limiti la diffusione, costringerebbe il virus a evolversi verso una forma meno violenta, poiché necessiterebbe della sopravvivenza più prolungata dell’organismo ospite per trasmettersi”.

“Conoscere il tracciato evolutivo di una malattia”, spiega Williams, “aiuta anche a individuarne i punti deboli”. Così come, secondo lo studioso, ci sono dei sintomi che per quanto fastidiosi hanno un’importante funzione preventiva: “è il caso per esempio della nausea durante la gravidanza, che previene l’eventuale assunzione di tossine a danno del feto, o della tosse che elimina i depositi di muco dai polmoni”. Le “ragioni” di una malattia possono dunque essere molteplici e non tutte attentano alla sopravvivenza umana: “Non esiste un singolo organismo sano, ma quadri clinici e mutazioni più o meno proficue all’evoluzione della specie. L’unico intento dell’organismo è sopravvivere quel tanto che gli è necessario per riprodursi. Costi e benefici di una malattia devono essere calcolati solo sulla base delle necessità adattative”, afferma Nesse.

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