Quando il cuore torna bambino

Evolute e immortali. Così possono essere classificate le cellule cardiache. L’apoptosi, il suicidio “geneticamente programmato” tipico delle altre cellule, non le riguarda. A meno che agenti esterni non intervengano a rompere questa armonia. Come, per esempio, un trombo che occlude una coronaria e causa un infarto. Una situazione completamente diversa da quello che succede nel feto, dove la morte dei miociti, le cellule cardiache, è programmata e quindi seguita da una rinascita. Ma una preoccupante analogia tra questi due processi, infarto e riproduzione dei miociti nel feto, è stata recentemente scoperta. E ha fatto discutere molti cardiologi riuniti a Roma nei giorni scorsi per il 62° Congresso nazionale della Società Italiana di Cardiologia (Sic). “Durante un infarto”, spiega Massimo Chiariello, presidente della Sic, “le cellule colpite rilasciano sostanze neuro-ormonali che ripristinano il programma genetico del miocita fetale: riprende anche nel cuore dell’adulto il ciclo vita-morte. Quando il cuore è sotto stress per un infarto, è come se tornasse bambino, si contrae meno bene e rischia di finire per suicidarsi lentamente. Ma mentre nel feto il suicidio è sempre seguito da una nuova nascita, nel cuore dell’adulto questa nuova nascita non avviene. Resta, quindi, solo la morte programmata, che porta alla progressione dell’infarto verso lo scompenso e il decesso del paziente”.

È quindi questo il meccanismo genetico che è causa del maggior numero di morti nel mondo. Secondo i dati dell’Organizzazione Mondiale della Sanità il 50 per cento dei decessi nei Paesi occidentali è causato ma malattie cardiache (contro il 27 per cento dei tumori). In Italia le morti ogni anno sono 242mila mentre nel mondo 17 milioni. Ma quali sono le contromisure che la cardiologia sta prendendo? “L’obiettivo”, risponde Chiariello, “è quello di bloccare il ripristino del programma genico che fa ritornale la cellula a livello embrionale, riducendo la progressione verso lo scompenso cardiaco e, aumentando così le aspettative di vita dei pazienti attraverso l’utilizzo di molecole anti-ormonali e anti-citochiniche”.

Contemporaneamente una delle strade più battute dai ricercatori porta alle cellule staminali. Recenti esperimenti hanno dimostrato che iniezioni di cellule staminali, potenzialmente in grado di diventare cellule muscolari complete, in topi a cui era stato procurato un infarto porta alla nascita di un nuovo tessuto cardiaco funzionante. Ciò fa intravedere la concreta possibilità di rimpiazzare porzioni di cuore e anche di interi cuori ormai malandati attraverso l’iniezione di cellule staminali: le prime sperimentazioni sull’uomo sono previste da qui a un anno.

Il problema si sposta quindi sul versante della prevenzione. Capire in tempo quali danni possono aver colpito il cuore anche dopo un infarto di lieve entità è fondamentale. E anche in questo campo la cardiologia sta compiendo passi importanti. Nelle cellule cardiache è infatti presente un enzima chiamato troponina. Se, analizzando il sangue di un paziente si notano livelli alti di questa sostanza vuol dire che alcune cellule sono morte e la hanno rilasciata nel sangue. In questi casi anche se non ci si trova di fronte a un vero e proprio infarto è meglio intervenire subito per evitare che la situazione peggiori. In che modo? I comandamenti sono tre: niente fumo, attività fisica e attenzione alla dieta. Soprattutto se si hanno genitori già colpiti da questo tipo di malattie. Ma anche un continuo controllo: “Più della metà delle persone con la pressione arteriosa alta”, spiega Paolo Rizzon dell’Università di Bari, “non sa di essere ipertesa e solo un quarto si cura in maniera efficace, cioè con terapie che riportano la pressione a valori ottimali”.

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