In molti se lo chiedono lungo il bacino del Po: quanti Pfas ci sono nell’acqua che esce dal mio rubinetto? Come dimostrato dalle recenti emergenze in Veneto e nel bacino del Po, queste molecole si accumulano nelle reti idriche in seguito a sversamenti e contaminazioni legate ai processi industriali, e possono mettere a repentaglio la salute umana in quanto interferenti endocrini: sostanze capaci di compromettere i normali processi ormonali del nostro organismo. Gli Pfas, o composti perfluoroalchilici, sono sostanze molto utilizzate nella produzione di tessuti e altri prodotti industriali. Ne esistono di diversi tipi, e individuarli nell’ambiente non è semplice: serve molto tempo e anche parecchio denaro. Ma dall’Università Ca’ Foscari di Venezia arriva una novità che rivoluziona la scena: un sensore elettrochimico che scova l’‘impronta digitale’ del Perfluorottano Sulfonato (o Pfos), una tra le molecole più diffuse e inquinanti della famiglia Pfas, e risponde immediatamente. L’invenzione è stata brevettata e presentata alla comunità scientifica con un articolo sulla rivista Sensors dell’American Chemical Society.
I composti perfluoroalchilici – ricordano i ricercatori veneziani – sono sostanze molto resistenti, e conferiscono proprietà idrorepellenti ed ignifughe ai materiali su cui vengono applicati. Per tale ragione sono largamente utilizzati nell’industria, per la produzione, ad esempio, di tessuti impermeabili o antimacchia. Gli effetti sulla salute non sono ancora stati accertati in modo definitivo, ma per la loro persistenza nell’ambiente e la capacità di accumularsi nell’organismo degli organismi viventi, uomo incluso, sono considerati inquinanti emergenti e pericolosi a livello globale.
“Oggi servono costose analisi di laboratorio per misurare la concentrazione di Pfos – spiega Paolo Ugo, professore di Chimica analitica a Ca’ Foscari e coordinatore del team di inventori del sensore – mentre il nostro sensore permette un riscontro sul campo, immediato e poco costoso, utile, ad esempio, a focalizzare gli ulteriori approfondimenti analitici solo sui siti più inquinati”. Il sensore impiega polimeri a stampo molecolare, una specie di reticolo creato ad hoc le cui cavità coincidono con le molecole che si vorranno riconoscere: lo stampo intrappola quindi solamente le molecole per cui è stato progettato. Praticamente, è in grado di scovare le impronte digitali di una sostanza chimica, e in questo caso, conoscendo l’impronta del Pfas, il sensore è in grado di riconoscerlo e misurarne la concentrazione.
Il brevetto è ora pronto – spiegano i suoi inventori – ma manca un ulteriore passaggio prima di vederlo arrivare nelle case, utilizzato per misurare quanti Pfas ci sono nell’acqua del rubimetto, e nelle aziende interessate, ad esempio quelle che gestiscono le reti idriche. Occorrerà un investimento industriale per ingegnerizzare il dispositivo e rendere facilmente fruibile sul display la misura effettuata dal sensore. Il risultato finale sarà un apparecchio simile al glucometro, comunemente utilizzato per misurare la glicemia.
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