Noi militari tendiamo a considerare le risorse economiche assegnate dal paese come un obbligo per la società. Il ragionamento è semplice e non fa una piega: siamo responsabili della sicurezza e lo Stato deve assicurare i mezzi perché questo servizio alla nazione sia garantito.
Con la sospensione dell’obbligo del servizio di leva, una parte sostanziale di questo contributo alla sicurezza nazionale è venuto meno. Non abbiamo più il compito di dare a tutti i cittadini un minimo di addestramento e, soprattutto, di educazione alla sicurezza nazionale. Un peccato, perché ora la gente crede che la sicurezza sia un compito di altri da assumere in leasing o di professionisti definiti tali non perché “capaci di”, ma soltanto perché “pagati per”. D’altra parte, la mutata situazione internazionale ha richiesto un incremento operativo dei militari. Non tanto per la difesa dei confini, ma per il contributo da dare alla sicurezza internazionale. Se la leva e il bilancio della difesa erano le tasse per la difesa nazionale, oggi il bilancio e i professionisti sono le tasse per la sicurezza internazionale. Tutto qui. Si può discutere se sia lecito usare uno strumento che secondo la Costituzione è posto sotto l’alto comando del Presidente della Repubblica e non dell’esecutivo per fare la guerra (ripudiata dalla Costituzione) o qualunque cosa somigli a essa fuori dal territorio nazionale, se sia legittimo lasciare al governo la responsabilità di autorizzare gli interventi all’estero, se gli accordi internazionali sottoscritti veramente impongano di violare la nostra Costituzione o le nostre convinzioni, la nostra cultura e perfino i nostri interessi collettivi, ma noi militari di queste cose ce ne siamo sempre allegramente fregati. Sono problemi di altri, sono responsabilità dei politici e noi facciamo quello che ci chiedono, basta che ci diano i fondi.
E così il dibattito sulle forze armate non è più sulla politica di sicurezza nazionale, sulle minacce, sui rischi, sulle strutture e sulle strategie, ma soltanto sull’autorizzazione a spendere. In un grande gioco di ambiguità i politici pensano che debbano essere i militari a stabilire le esigenze e a forgiare gli strumenti, tranne poi ignorarle quando assegnano i fondi o richiedono prestazioni aggiuntive, mentre i militari pensano sempre a realizzare strutture teoricamente perfette salvo poi vedersele deperire per i tagli alle risorse. È un gioco di ambiguità che tende a eludere le responsabilità: i militari pensano che chiedendo di potenziare le strutture (o di conservarle) non sono responsabili della loro inefficienza perché causata dai tagli di bilancio, mentre i politici pensano di non essere responsabili delle inefficienze perché i militari sono incapaci di gestire le risorse. Anzi, tagliando i bilanci, i politici possono dire di risparmiare e di indurre le forze armate alla riduzione delle strutture. Per i militari poco importa se il potenziamento è solo virtuale e sostanzialmente non necessario, per i politici poco importa se il cosiddetto risparmio depaupera il patrimonio umano e materiale delle forze armate. È anche un gioco al massacro reciproco che potrebbe essere salutare se non coinvolgesse centinaia di migliaia di operatori in buona fede, milioni di contribuenti ignari e un patrimonio materiale (tra armamenti e infrastrutture) di migliaia di miliardi di euro che si disperde in avventure e speculazioni.
Oggi, con la crisi, si registra una nuova attenzione dei militari per le risorse. Mentre ai vertici se ne parla sempre in termini di conservazione, fuga dalle responsabilità e paura della perdita di considerazione, da parte dei quadri vi è la consapevolezza che in un sistema interdipendente di sicurezza non è consentito a nessuno sciupare risorse o nascondersi o sperare che passi la “nuttata”. Ci sono poi alcuni politici illuminati e molti quadri militari, i più giovani, che si interrogano su un parametro che non è stato mai considerato né dai vertici militari né da quelli politici: l’efficienza, intesa come rapporto tra risorse e risultati. Oggi è possibile misurare questo parametro meglio che in altri periodi perché si possono misurare i risultati in termini concreti e non ipotetici o ideologici. Noi stessi come nazione siamo misurati di continuo in base ai risultati e se abbiamo ancora un residuo di prestigio internazionale non lo dobbiamo alla politica, che assume connotazioni sempre più imbarazzanti, ma ai militari impiegati nelle missioni all’estero.
Tuttavia, la fase di contributo valutato in base al numero di “baionette” è finita da tempo. Non si valuta più nemmeno il cosiddetto “assolvimento del compito” o la “missione compiuta” che dovrebbe misurare l’efficacia, come capacità di una struttura a fornire la prestazione stabilita, perché compito, missione e durata sono tanto vaghi e teorici che non si possono quantificare. Oggi l’efficienza di un sistema militare si misura sulla base dell’incremento di sicurezza ottenuto dalle missioni o a causa delle missioni stesse. Ogni nazione, ogni contingente, ogni comandante si qualifica e ogni morto viene pesato su questo risultato. È chiaro che a parità di risorse impiegate il sistema più efficiente è quello che dà il risultato migliore, e viceversa: la sovrabbondanza di risorse per un risultato insignificante è segno di grande inefficienza. Ecco, quindi, che si deve accogliere con grande favore il risveglio d’interesse per l’allocazione delle risorse ai militari da parte dei politici, dei cittadini e dei militari stessi.
Certo, possiamo registrare la maniacale curiosità per le regole d’ingaggio e per la scelta dei mezzi, ma dovremmo riservare il rammarico a quando nessuno se ne curava e si mandavano ugualmente i nostri soldati nei teatri di guerra altrui. Senza tutela e senza mezzi adeguati. Il rammarico dovrebbe anche riguardare i tentativi dei vari politici di zittirsi a vicenda sull’argomento e i silenzi assordanti di certi militari che non parlano di spese per la difesa e odiano le critiche perché pensano che tutto sia dovuto. Che se ne parli, invece, e che si parli di come viene speso il vile denaro perché esso diventa sacro quando è pubblico e perché è parte integrante della strategia. Il primo Maestro della Guerra, Sunzi (V secolo a.C.), dopo un capitolo dedicato ai principi generali introduce le operazioni militari proprio con la parte finanziaria. «Ci vogliono mille pezzi d’oro al giorno, per le operazioni, e la mobilitazione delle truppe non può avvenire fino a quando non ci sono le risorse. Il costo delle operazioni depaupera le casse dello stato e quando queste sono spoglie bisogna alzare le tasse. Con le operazioni prolungate si ottiene perciò il doppio risultato negativo di prosciugare il tesoro dello stato e d’impoverire le famiglie». Inoltre: «si è sentito spesso di operazioni spregiudicate tese a fare presto, ma non si è mai sentito che operazioni lunghe abbiano portato alcun beneficio allo stato».
Ben venga, dunque, che la politica parli di operazioni, di uomini, di strategia, di tempi, di mezzi e di soldi. Le cose sono collegate e, come in un sistema di vasi comunicanti, non si può parlare di Libano e ignorare i Balcani, l’Afghanistan e tutti gli altri luoghi dove i nostri soldati sarebbero veramente d’aiuto ad altre popolazioni martoriate. Se poi, parlando, scopriamo che ci sono missioni endemiche per pura pigrizia, incompetenza o asservimento, che una settimana prima della crisi libanese è stata diminuita l’indennità dei soldati in operazioni, che un soldato prende di più quando è imbarcato a migliaia di chilometri dal teatro operativo di quando è sotto le pallottole dei vari terroristi, che quelli che operano veramente sono pochi, che a rischiare sono sempre gli stessi e che il sacrificio di pochi serve a dare credito a molti che non lo meritano… allora, dalle parole passiamo ai fatti.
Uno dei primi fatti è rappresentato dalla mancanza di trasparenza dei bilanci pubblici di cui quelli militari fanno parte. La cronica diffidenza, da un po` di tempo è aggravata, non senza qualche ragione, dalla contabilità “creativa” dedotta dalla finanza “creativa”: quel nuovo settore della magia bianca grazie al quale i debiti e le elargizioni ai gruppi di pressione diventano investimenti, le spese fisse per il personale sono spese improduttive opinabili, le spese di gestione e funzionamento sono perdite e le perdite di patrimonio o le speculazioni ai danni del capitale dello stato diventano entrate produttive. Indipendentemente dal tipo di governo, la politica economica gestita dalle più brillanti menti della nostra economia e finanza non è riuscita ad andare oltre la regola che ogni studente del primo anno di ragioneria impara: lo stato incrementa le entrate aumentando le tasse e riduce le uscite tagliando le spese. Poco importa se le tasse sono vessatorie e vengono dilapidate o se vengono tagliate le spese necessarie al funzionamento e al mantenimento del patrimonio pubblico per incrementare quelle destinate a favorire i giochi di potere. Ma anche in questo modo si è riusciti a “creare”: la politica della pressione fiscale, che dovrebbe essere una sintesi fra esigenze, ambizioni, risorse ed equità, viene gestita in maniera autonoma e prettamente contabile partendo dal presupposto di tagliare quà e là imponendo teorici parametri di risparmio indipendenti perfino dalle linee politiche e dagli impegni internazionali. I singoli centri di spesa (dai ministeri in giù) vengono quindi caricati dell’onere e dell’autorità di determinare in maniera indiretta e surrettizia le priorità politiche, le ambizioni, gli impegni da onorare, le clientele da soddisfare e i settori in cui, di conseguenza, tagliare la spesa. Si configura un sistema di potere in cui: 1) la politica dello stato si orienta più verso il “negativo”, (i tagli al bilancio e le limitazioni di spesa), piuttosto che verso il “positivo” (i risultati da raggiungere, gli impegni da mantenere, l’efficienza e il patrimonio da garantire e l’investimento sul futuro); 2) la decisione politica sulle priorità viene delegata a chi comunque viene “strangolato” ed è affidata alle pulsioni individuali o alle esigenze oligarchiche del momento. Per questo, ridurre la spesa senza discutere i criteri e le priorità non porta a sprecare di meno ma ad orientare gli sprechi a favore di chi è più forte e retrivo o di chi sente più impellente l’interesse di fazione e l’istinto di conservazione “personale”. E fatalmente, più si riducono le risorse, più si incentivano i comportamenti settoriali e fratricidi. In un sistema così concepito l’imperativo di spendere “meglio” per spendere meno, ottimizzando le risorse in relazione agli impegni, al ruolo nazionale e alle ambizioni, non può essere rispettato. Prevale la logica di parte e per calcolare l’efficienza globale e far quadrare i conti si conta su limitate eccellenze e l’appoggio di alcuni settori industriali per compensare illimitate deficienze e continuare brillanti carriere.
Il secondo fatto sta nel velleitarismo, non immune da interesse privato, che caratterizza le richieste di risorse. “Dobbiamo sviluppare pacchetti di forze con capacità di comando e controllo per gestire contingenti meno “attrezzati” e contemporaneamente per garantire “indispensabile piena integrazione con le forze dei primi della classe”, diceva un nostro ammiraglio mentre si candidava per una importante posizione nella NATO: giustissimo. Forse il primo obiettivo riusciremmo a raggiungerlo, quelli più indietro di noi in Europa e nella NATO sono molti e continuano ad aumentare, ma il secondo obiettivo è un’operazione costosissima e impossibile. I programmi di ammodernamento delle forze armate americane – i primi della classe – vanno avanti come treni e sono calibrati su una visione globale del potere militare che noi non possiamo avere e, come singolo paese, non dovremmo neppure avere. Non è possibile pensare, coi nostri programmi, di poter raggiungere il loro livello d’investimento e neppure quello di consumo. Nel 2008 le spese statunitensi per i consumi della guerra sono aumentate del 40% rispetto al 2007. Il bilancio della difesa americana del 2009 con i suoi 630 miliardi di dollari sembrava aver raggiunto l’apice anche a causa della crisi economica e dell’avvicendamento alla Casa Bianca. In realtà per il 2010 il nuovo presidente ha previsto quasi 670 miliardi di dollari di spesa militare e le guerre non sono finite. Se le spese sono aumentate, significa che tutto il sistema rimane in accelerazione e che la guerra rimane la priorità americana anche se a parole si promette diversamente. Per metterci al loro livello, dovremmo fare degli sforzi francamente incompatibili con le nostre risorse, ma anche con le nostre capacità e finalità politiche. Non siamo quindi noi a staccarci dai primi della classe ma loro a far di tutto per allontanarsi dagli altri. Di fatto stanno costruendosi un apparato di pressione internazionale per gestire un mondo multi-conflittuale su vari piani e vari livelli. La loro efficienza è tuttavia ai minimi termini e in questo possiamo dirci alla pari. Di fatto, perciò, chi incita alla rincorsa dei primi della classe vuole soltanto assorbire più risorse per progetti insostenibili che aumentano l’inefficienza del sistema e lo allontanano dalle vere priorità.
E il terzo fatto è appunto l’inefficienza. In questo senso il cattivo esempio non viene solo dagli americani che stanno comunque pagando per primi, con una crisi devastante, gli errori e gli avventurismi bellicisti. Il più evidente esempio d’inefficienza, insensibilità, sprechi e assenza di politica viene dall’Europa. È un vero scandalo di cui non si parla quasi mai. Secondo i dati del 2006, l’Unione Europea, 27 paesi, ha 1.887.688 soldati, tre milioni di soldati di riserva, 12.352 carri armati, 288 tra navi da combattimento e sommergibili, 3.041 aerei da combattimento e 860 da trasporto. I 27 paesi spendevano circa 200 miliardi di dollari per la Difesa, contro i 23 miliardi che risultavano dal bilancio ufficiale (e quando si dice “ufficiale” si dice falso) della Russia. Gli Stati Uniti in quell’anno avevano un milione e 546.000 soldati in servizio permanente effettivo, 956.000 nella riserva, 8.000 carri armati, 190 navi maggiori e sommergibili, 3.099 aerei da combattimento, 550 aerei da trasporto e un bilancio di 561 miliardi di dollari. In ambito europeo, non è poi che i 27 paesi si ripartiscano impegni e oneri in modo equilibrato. Francia, Germania, Italia e Gran Bretagna sono i quattro paesi che contribuiscono col 50 % della forza effettiva, mentre concorrono soltanto col 22% alle forze di riserva: il che significa che gli altri 23 paesi esprimono la maggioranza delle forze di riserva. Francia, Germania, Italia e Gran Bretagna danno il 32% dei carri armati, il che significa che l’altro 70% è degli altri 23 paesi; danno il 53% delle navi, il 47% degli aerei, il 49% dei velivoli da trasporto e il 70% del bilancio cumulativo. Dal 2006 gli Stati Uniti hanno aumentato le spese militari di 100 miliardi di dollari ma la loro efficienza e la loro credibilità sono diminuite. Le forze sono quasi le stesse di allora ma fortemente usurate nella motivazione, nella capacità operativa e nell’efficienza dei sistemi da combattimento. In Europa dal 2006 nessun paese ha ridotto le forze armate o ha assunto nuovi impegni, anzi molti bilanci sono aumentati e alcune missioni sono state ritirate. Nessuno ha ridimensionato i programmi di armamento, anzi sono stati sottoscritti e finanziati programmi faraonici completamente inutili dal punto di vista operativo e particolarmente gravosi da quello finanziario. L’Unione Europea, 27 paesi, non riesce a svolgere alcun ruolo di equilibrio e influenza né in politica estera né in quella della sicurezza.
Questo vuol dire che in Europa veramente stiamo sprecando risorse, tempo e intelligenza. Vuole anche dire che da almeno vent’anni stiamo perdendo opportunità significative per razionalizzare le forze armate, renderle più efficienti, sviluppare una politica di equilibrio internazionale, orientare gli sforzi su nuove priorità e spendere di meno e meglio.
Non è vero che la prima opportunità perduta sia stata quella scaturita dal crollo dei blocchi. In verità quell’evento ha terrorizzato tutto il sistema dei poteri industriali e militari. Non si sapeva chi potesse diventare il nuovo nemico e anche la prospettiva di non avere affatto un nuovo nemico era vista come una destabilizzazione, un azzardo, una asimmetria pericolosa. Per un decennio si sono fatti piani e progetti non più mirati a battere un avversario concreto, ma una minaccia ipotetica, remota, possibile anche se improbabile: una minaccia che sotto vari nomi veniva fatta coincidere con l’incertezza. Ovviamente era vero esattamente il contrario: la minaccia alla stabilità mondiale era chiara e certa perché veniva dall’incapacità di accettare i segnali e le sfide di un nuovo mondo. La minaccia veniva da un apparato politico-militare che non era preparato a concepire un modo di fare sicurezza diverso dalla contrapposizione armata; veniva dalla paura del mondo industriale di perdere quote di mercato: bellico, naturalmente. Non a caso dal 1989 al 1999 abbiamo assistito ad una sequenza di guerre, rivoluzioni e pseudo-rivoluzioni, nuove alleanze a geometria variabile, iniziative di ricostituzione dei blocchi e concezioni strategiche, come quella della NATO, che abbandonavano i limiti e le limitazioni stesse concepite durante la guerra fredda per espandere sia il territorio d’influenza sia la propria capacità d’intervento militare. La minaccia stava nella percezione non peregrina di aggressività e di neo-colonialismo culturale e politico che intanto si trasmetteva al resto del mondo.
In quel decennio le vere occasioni perdute sono state quelle di riflessione su cosa veramente si stesse creando e sulla mistificazione costante della realtà: nel 1990 già si preparava il disastro balcanico e i segnali che provenivano dalla penisola venivano ignorati o travisati. Nessuno ha chiesto perché Saddam avesse invaso il Kuwait e quanto potesse aver aiutato la sua decisione la dichiarazione dell’ambasciatrice americana April Glaspie che «questi erano affari interni dei paesi arabi». Nessuno ha chiesto come mai ci volevano le troupes cinematografiche per riprendere lo sbarco americano in Somalia o quello nostro in Libano; nessuno ha chiesto conto delle stragi di serbi fatte dai croati e dai musulmani bosniaci, ma tutti si sono scandalizzati per le stragi serbe di rappresaglia. Nessuno ha chiesto perché la rivolta albanese in Kosovo prima viene definita terrorismo e poi guerra di liberazione. E se si trattava veramente di oppressione nessuno si è chiesto come mai ci sono voluti dieci anni per intervenire con una guerra per giunta illegale. Si voleva abbattere il regime di Milosevic, ma nessuno si è chiesto come mai i serbi se ne sono andati con le proprie armi dal Kosovo e come mai è stato lo stesso popolo serbo a disfarsi democraticamente di Milosevic. Così come è stato lo stesso governo serbo a consegnare Milosevic al tribunale dell’Aja dietro promessa di sblocco degli aiuti economici. Nessuno si è fermato a riflettere sul fatto che il risultato ottenuto con 100 milioni di dollari si poteva ottenere prima risparmiando sei miliardi di dollari in bombardamenti, senza contare i costi delle vittime e l’umiliazione inflitta a un’intera nazione messa in ginocchio dalla guerra. Nessuno si è chiesto come mai soltanto nel 1999 la comunità internazionale si rende conto che Timor Est è da 25 anni sotto invasione indonesiana. Interviene una forza internazionale guidata dagli australiani e allora la situazione si sblocca, in senso eufemistico, naturalmente. Timor Est acquista l’indipendenza, ma rimane il paese più povero del mondo e il suo petrolio passa dagli indonesiani invasori agli australiani liberatori.
Le occasioni di quel decennio svaniscono a forza di non porsi le domande giuste e di non pretendere risposte. Così quando nasce la “nuova” minaccia del terrorismo, il mondo occidentale si trova ad essere super armato e come sempre impreparato a capire cosa sta succedendo. La soluzione sta in nuove guerre ed è quasi una sorta di liberazione da un incubo: finalmente c’è un nemico. Uno talmente diverso e odioso che richiede una risposta a tutto campo con il rafforzamento degli eserciti in modo da prepararsi a qualsiasi evenienza: una pacchia per tutti quelli che traggono fortune dalle guerre e dalla paura. Anche in questo secondo decennio non abbiamo fatto domande. E in realtà con l’era dell’apologia e dell’industria del terrore le domande non vengono neppure in mente. Si perdono così le opportunità di realizzare una vera difesa dal terrorismo cambiando politica ed eliminandone le cause. Salta la prospettiva di un esercito europeo, ma soprattutto salta la prospettiva di farne uno che sia l’integrazione del meglio di tutti, piuttosto che la somma delle ridondanze, delle inefficienze e degli sprechi di tutti. Per dare all’Europa uno strumento militare in grado di soddisfare le esigenze di una politica estera e di sicurezza veramente degna di tale nome e del rango economico del vecchio continente basterebbero forze equivalenti a meno di un decimo di quelle attualmente disponibili. Basterebbe mantenere i mezzi migliori già presenti e, integrandoli in una struttura unificata, si avrebbe una pedina efficiente e sempre pronta: al servizio di tutti e controllata da tutti senza il rischio di avventure pericolose per tutti.
Chi vuole delegare la propria politica estera e di sicurezza all’Unione può accontentarsi di contribuire all’esercito comune e chi ha voglia o velleità di tenersi le proprie forze armate può costituirsi di riserve o guardie nazionali che normalmente costano un decimo di quelle regolari. In questo decennio il progetto di esercito europeo parte esattamente nel senso opposto: bisogna farne uno che si aggiunga agli altri: 27 nazioni e 28 eserciti. E quest’esercito aggiuntivo non deve essere unificato con gli altri, ma solo compatibile il che significa che ogni nazione dovrà versare oboli alle proprie industrie fingendo di realizzare sistemi d’arma compatibili. L’unica realizzazione concreta di questo progetto, come prevedibile, è nell’apparato burocratico, nell’incremento di poltrone e nello sviluppo di un’agenzia europea che assicuri le commesse alle solite industrie. Così i bilanci devono aumentare senza che si possa veramente contribuire alla sicurezza internazionale o diminuire l’inefficienza. I risultati oggettivi degli sforzi comuni di sicurezza in ambito europeo sono delle farse. Quelli delle missioni della NATO, a partire dall’Afghanistan, sono delle tragedie.
L’ultima occasione che si sta sciupando è quella offerta dalla crisi internazionale finanziaria ed economica. avrebbe potuto essere una grande opportunità per rivedere sia la politica comunitaria sia quella dei singoli paesi. In Italia si sarebbe finalmente potuto mettere mano alla ristrutturazione graduale dello strumento militare e mettere assieme qualcosa di efficiente. Stabilendo lo strumento europeo da realizzare avremmo potuto concentrarci sulla realizzazione di quello che sarebbe servito a tale scopo. Non è accaduto. Gli interessi di bottega si sono cristallizzati e così i cervelli. Nel frattempo ciò che abbiamo deperisce perché le risorse sono insufficienti a mantenere qualcosa che non ci erve e che è così inefficiente da non poterci essere di alcun aiuto nemmeno in caso ci servisse. Ogni ipotesi di ristrutturazione prevede una riduzione dello strumento concomitante con una riduzione delle risorse. In tal modo si avrà uno strumento più piccolo ma ancora più inefficiente fino a raggiungere la completa inutilità. È vero, la crisi non è ancora passata, anzi quella economica profonda deve ancora manifestarsi in tutta la sua crudezza. Ma sperare in un ulteriore aggravamento della situazione come stimolo alla razionalizzazione non è saggio: il peggioramento potrebbe portare al panico, all’entropia e potrebbe rendere impossibile qualsiasi intervento razionale. Anzi nelle situazioni di sfascio si verificano le opportunità migliori per gli approfittatori e per quelli che reagiscono proprio con le guerre e con l’instabilità. C’è soltanto da sperare che l’interesse per la sicurezza e la professionalità di chi vuole l’efficienza, la trasparenza e l’onestà prevalgano sulle speculazioni e sulle mistificazioni.
Fabio Mini è Tenente Generale dell’Esercito Italiano e ha comandato le operazioni di pace in Kosovo a guida NATO (KFOR).
Credits immagine: Carmine via Flickr
Articolo pubblicato su Sapere di Aprile 2010, con il titolo originale “Il carrozzone armato”. Ecco come abbonarsi alla rivista
in tempo di vacche magre i nostri soldati dovrebbero tornare a casa punto e basta chi se ne frega delle guerre per far lucidare il nostro peso politico internazione è ora di finirla e di farsi furbi un’attimino tanto a livello pratico non ci guadagnamo niente anzi sperperiamo soldi per futili motivi imparate dai sovietici che se ne lavano le mani di tutto e fanno fare il lavoro agli altri e al momento giusto si presentano per la spartizione della torta punto.