Quanto costa l’inquinamento

    Le scelte che riguardano le risorse energetiche, su scala nazionale e globale, devono tenere conto del fattore economico: dal costo immediato di una particolare fonte di energia, a quello della messa a punto di nuove tecnologie per lo sfruttamento di risorse rinnovabili, a quello, più a lungo raggio, dell’impatto sull’ambiente. Ne abbiamo parlato con Edgardo Curcio, presidente dell’Associazione Italiana Economisti dell’Energia.

    Dottor Curcio, in che modo influisce il fattore economico sulla questione energetica?

    “In senso stretto, direi che oggi il fattore economico non è più così stringente come dieci o quindici anni fa. E ciò dipende soprattutto dal fatto che i prezzi dell’energia, in particolare del petrolio, in questi ultimi tempi sono diminuiti sensibilmente sino a ritornare ai valori dei primi anni ‘60. Questo è il risultato dell’esplosione dell’offerta mondiale di petrolio, dovuta principalmente a tre fattori: la crisi asiatica del ‘96, che ha ridotto la domanda di energia in quell’area, facendo scendere i prezzi; la decisione da parte dell’Iraq di riprendere a esportare, facendo aumentare quindi l’offerta; e il crollo del blocco sovietico, che ha aperto alle compagnie petrolifere internazionali molte zone ricche di giacimenti. Certo, ancora oggi buona parte del petrolio risiede in paesi politicamente ‘a rischio’, come l’Iran , l’Iraq, o l’Algeria, ma questo influisce decisamente meno rispetto a dieci anni fa. A parte il fatto che le aree politicamente instabili si sono ridotte del 50%, nel mondo nel frattempo sono state trovate ampie zone produttive alternative. Una serie di condizioni che ha fatto crollare i prezzi: oggi il petrolio è tornato a essere venduto per 13-14 dollari al barile. Se pensiamo che nel ‘79, durante la seconda guerra petrolifera, il prezzo arrivò a 40 dollari al barile, o che durante la guerra del Golfo si raggiunsero addirittura i 42 dollari, ci rendiamo conto della differenza. Dunque il problema economico in senso stretto non è più imminente”.

    E in una prospettiva più allargata?

    “Come è noto, uno dei problemi più gravi che riguarda il futuro dell’energia è quello dell’inquinamento. Ovviamente, anche riguardo all’impatto sull’ambiente si possono immaginare dei costi. Nel linguaggio tecnico questo fenomeno si chiama esternalità, ovvero il costo che la collettività subisce come conseguenza di fenomeni di carattere ambientale dovuti all’uso di fonti energetiche particolarmente inquinanti. Esistono delle metodologie per valutare questi costi. Oggi, per esempio, prima di costruire una nuova centrale bisogna fare delle valutazioni non più solo economiche, ma anche ambientali. Quindi l’economista deve considerare, oltre che i meri costi, anche l’esternalità di ogni nuovo impianto”.

    In questo senso, la scelta delle fonti rinnovabili potrebbe essere, sui tempi molto lunghi, quella più economica?

    “Certamente sì, ma siamo ancora lontani: oggi, una fonte eolica o fotovoltaica, che attraverso i pannelli solari trasforma l’energia del Sole in elettricità, produce un chilowatt a un costo superiore a quello di una centrale elettrica alimentata con olio combustibile o gasolio. Chi paga questo sovrapprezzo? E poi, immaginando di passare allo sfruttamento di queste energie ‘pulite’, dobbiamo mettere in conto anche i costi delle riconversioni di macchinari e infrastrutture. Tecnologicamente, già oggi le fonti rinnovabili danno discreti risultati, ma siamo ancora a livello di prototipi. Esiste, per esempio, un’automobile tutta ricoperta di pannelli fotovoltaici, in grado di andare a 120 chilometri l’ora. L’unico problema è che costa due miliardi. E passeranno decine di anni prima di annullare gli attuali problemi di ammortamento”.

    Le nuove tecnologie che migliorano l’efficienza dello sfruttamento energetico hanno un ruolo all’interno dell’equilibrio costi-benefici?

    “Sì, e direi che è un ruolo fondamentale. Già oggi, la gestione oculata dei costi è dovuta anche a un forte avanzamento tecnologico. Il settore dell’energia è diventato duttile al punto di fronteggiare le situazioni più difficili. Le grandi compagnie hanno fatto uno sforzo enorme per ridurre i costi e sviluppare più risorse energetiche: oggi il petrolio si riesce a prenderlo in fondo al mare, nell’Artico, dappertutto. Anche l’efficienza del sistema di sfruttamento è migliorata: pochi anni fa il rendimento di elettricità di una centrale era del 30%, oggi è raddoppiato: quindi si consuma la metà di combustibile per produrre la stessa quantità di energia elettrica. D’altro canto, come ho già detto, la scelta di investire in nuove tecnologie per lo sfruttamento di fonti alternative è legata ai costi per estrarre l’energia tradizionale: se il prezzo dell’energia petrolifera è basso, diventa allora difficile che le altre fonti possano essere competitive. A tale scopo i governi, in disaccordo con i paesi produttori, stanno pensando di imporre una tassa sull’uso dei combustibili più inquinanti, come per esempio il carbone”.

    Tornando a oggi, quali sono le strategie attualmente messe in atto a livello internazionale?

    “A Kyoto, durante il summit mondiale sull’ambiente della primavera scorsa, è stato stilato un accordo che prevede un impegno da parte di tutti i paesi firmatari, dagli Stati Uniti all’Unione Europea, da quelli sudamericani sino alla Russia, di ridurre le emissioni di gas serra, i principali responsabili dei cambiamenti climatici che stiamo subendo. Infatti le emissioni rilasciate dai combustibili fossili, sotto forma soprattutto di anidride carbonica, si vanno a depositare nell’atmosfera, stravolgendone la composizione chimica naturale. Se alla combustione di petrolio e carbone sommiamo gli effetti delle deforestazioni, ecco che tra venti o trent’anni il mondo potrebbe uscirne sconvolto. Ebbene, tutti i paesi firmatari si sono impegnati a ridurre il consumo di energia, o perlomeno consumare energia bruciando meno combustibile. Quanto poi questo impegno venga inserito immediatamente nei programmi di ciascun governo, è un’altra faccenda.

    Come valuta il grande squilibrio nel consumo di energia tra i paesi industrializzati e quelli più poveri?

    “I paesi poveri rimangono dei consumatori di petrolio e di gas perché sono le fonti più economiche e, al momento, più facilmente trasportabili per chi non ha grosse possibilità. Però va anche detto che questi paesi non sono dei grandi consumatori di energia. I paesi più ‘spreconi’ sono invece gli Stati Uniti e la Cina. Basta dire che gli americani consumano, pro capite, il doppio dell’Europa. Se riducessero il loro consumo al livello europeo, ecco che allora in un solo colpo avremmo risolto il problema dell’effetto serra. Ma come si fa a spiegare a un americano che per girare con l’automobile non serve una cilindrata da 4000, o che per combattere il caldo non occorrono condizionatori e frigoriferi giganteschi? Oppure che le città sono inutilmente illuminate a giorno 24 ore su 24 o che il trasporto pubblico scarseggia a vantaggio di quello privato? Il fatto è che non è solo un problema culturale. Questi enormi consumi sono sostenuti da forti lobby industriali, che non hanno nessun interesse a limitarne la portata. Non è un caso se gli Stati Uniti non volevano firmare gli accordi di Kyoto. Ma non bisogna puntare l’indice solo sugli Usa. In Cina, per esempio, c’è un consumo energetico pro-capite, soprattutto di carbone, molto basso, ma che se viene moltiplicato per un miliardo e trecento milioni di persone si traduce in una quantità immensa di anidride carbonica che si disperde nell’atmosfera. Ovviamente, non si può chiedere solo ad alcuni paesi di fare dei sacrifici: diventa una questione di fair play. Tutti governi del mondo, quindi le compagnie e industrie energetiche, devono fare la loro parte. In questo quadro moltissimo possono fare i movimenti ambientalisti che, pur avendo un seguito numericamente scarno, difficilmente trovano opposizioni a livello governativo”.

    Per concludere, è possibile fare delle previsioni economiche sul futuro dell’energia?

    “A medio termine, il petrolio e i prodotti fossili rimarranno l’energia basilare, la fonte primaria. Tutta la nostra economia è basata sul petrolio. Cambiare le tecnologie e la cultura del nostro secolo non è una cosa facile, né immediata. Qualsiasi sostituzione deve essere graduale. Servono dei decenni. Almeno tre o quattro. Solo allora saremo in grado di diminuire i disagi ambientali e aumentare l’efficienza, contenendo possibilmente le emissioni in quei paesi che hanno un basso rendimento e un forte consumo. Il trend è quindi quello di cominciare a diminuire le risorse fossili a favore di quelle alternative, senza però pensare che il distacco sia immediato. Energia, ambiente ed economia sono tre elementi che vanno collegati: abbiamo bisogno di energia, di un ambiente pulito, ma abbiamo anche bisogno che i conti tornino, non si possono sempre fare investimenti sostenuti da sussidi dello Stato. Fortunatamente, le imprese si stanno rendendo finalmente conto che l’efficienza degli impianti passa anche per l’impiego di tecnologie nuove e competitive. In futuro sono convinto che riusciremo a conciliare tutte queste esigenze: la caloria sarà ‘pulita’ e prodotta a un costo competitivo con quella prodotta con sistemi tradizionali esauribili e inquinanti. Già oggi, le imprese sono diventate molto flessibili: si adattano alle esigenze dei mercati e in futuro si adatteranno anche al ricambio delle fonti”.

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