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Quel che rende coscienti

Distinguere tra stato vegetativo e stato di minima coscienza non è sempre facile. Nel primo caso il paziente è capace solo di movimenti riflessi, al contrario una persona in stato di minima coscienza dà segni, seppur minimi, di attività motoria volontaria, come il movimento degli occhi per seguire un famigliare. Ma cosa cambia a livello cerebrale? Se lo sono chiesti i ricercatori dell’Università di Liegi, dell’University College of London e dell’Università di Milano, scoprendo che la presenza di un certo grado di coscienza è associata all’abilità di diverse parti del nostro cervello di interagire tra loro in modo bidirezionale. Il loro studio è stato pubblicato su Science. Marcello Massimini, neurofisiologo dell’Università di Milano, che ha preso parte allo studio, spiega a Galileo l’importanza e il significato delle scoperta.

Dottor Massimini, perché è così difficile distinguere tra stato vegetativo e stato di minima coscienza?

“La difficoltà deriva dal fatto che, tipicamente, valutiamo la presenza di coscienza sulla base della capacità di un soggetto di interagire e comunicare con il mondo esterno, un metodo efficace ma non sempre sensibile. È infatti possibile che un soggetto sia completamente isolato dal mondo esterno, incapace di comunicare e sia, tuttavia, cosciente. Una situazione di questo tipo può occorrere a tutti noi durante la fase REM del sonno quando, benché incapaci di ricevere stimoli dall’ambiente esterno e benché paralizzati, sogniamo. A maggior ragione questa dissociazione tra capacità di coscienza e capacità di comunicare con il mondo esterno può occorrere in pazienti affetti da gravi lesioni cerebrali nei quali le vie sensoriali e le vie motorie possono essere interrotte”.      

Come viene stabilità oggi a livello clinico la differenza tra i due stati?

“La diagnosi differenziale tra questi due stati si basa sulla somministrazione di test neuropsicologici specifici come la Coma Recovery Scale Revised. Fondamentalmente, queste scale valutano la capacità del paziente di fornire risposte motorie adeguate a fronte di stimoli più o meno specifici. Se queste risposte sono presenti, non vi è dubbio che il paziente sia, in qualche misura, cosciente. Il problema si pone quando la persona non risponde: in questo caso rimane il dubbio che il paziente sia cosciente, pur senza riuscire a scambiare informazione con l’ambiente esterno. Dunque, nel caso dell’esame clinico di chi ha subito una grave lesione cerebrale, l’assenza di una prova di coscienza non è necessariamente prova dell’assenza”.

Quali sono invece le differenze tra stato vegetativo e stato di minima coscienza a livello cerebrale da voi studiate?

“Utilizzando l’elettroencefalogramma ad alta densità e un protocollo di stimolazione acustica (un tono acustico diverso, nel contesto di una sequenza di toni omogenei) abbiamo osservato un’importante differenza nel modo in cui l’informazione sensoriale viene processata dal cervello di pazienti in stato vegetativo rispetto a pazienti che sono in uno stato di coscienza minima. Come accade nel caso di soggetti sani, nei pazienti in stato di coscienza minimale uno stimolo sensoriale rilevante (un tono acustico diverso appunto) genera prima un’onda di attivazione neurale che procede dal basso verso l’alto, dalle aree corticali sensoriali primarie del lobo temporale verso le aree associative frontali, e poi un’onda in direzione opposta (top-down). Proprio quest’onda di rientro, dalle aree frontali associative a quelle sensoriali, manca nei pazienti con una chiara diagnosi di stato vegetativo”.

Che significato hanno queste differenze?

“Questi risultati confermano l’ipotesi che la coscienza derivi dalla capacità di diverse aree cerebrali di influenzarsi reciprocamente e dinamicamente. In altre parole, la coscienza dipende dalla capacità di un cervello di sostenere una complessa rete di comunicazione al suo interno e dallo svolgersi di un dialogo continuo e bidirezionale tra le aree corticali primarie e quelle associative. In futuro, lo sviluppo di metodiche in grado di ascoltare direttamente questo dialogo interno al cervello rappresenterà un passo importante per la diagnosi e la comprensione dei disturbi della coscienza in pazienti portatori di gravi lesioni cerebrali”.

In che modo sarà possibile comprendere meglio il “dialogo interno del cervello”?

“Il nostro studio era focalizzato su un particolare circuito, quello temporo-frontale, ma in realtà bisognerebbe valutare la capacità di comunicazione su una scala più vasta e generale. Per questo vale la pena sviluppare nuove tecniche di misura, come la combinazione di stimolazione magnetica transcranica e di elettroencefalografia, che siano in grado di accedere direttamente alla molteplicità di circuiti che costituiscono il sistema talamo-corticale”.

Riferimenti: Science DOI: 10.1126/science.1202043

Anna Lisa Bonfranceschi

Giornalista scientifica, a Galileo Giornale di Scienza dal 2010. È laureata in Biologia Molecolare e Cellulare e oggi collabora principalmente con Wired e La Repubblica.

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  • ancora una volta si ha la conferma che quello che ci rende vivi sono le relazioni , le connessioni questo sia nel mondo che ci circonda sia nelle relazioni sia nel nostro corpo.Siamo vivi fino a che siamo in grado di collegarci con gli altri, comincaimo a morire quando ci isoliamo.

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