Quel Nobel fa discutere

E’ di questi giorni l’annuncio che il premio Nobel 1997 per la medicina è stato assegnato allo statunitense Stanley Prusiner. Ma è un Nobel che già fa discutere. Infatti, fino a pochi mesi fa, parecchi colleghi consideravano le sue idee a un passo dall’eresia. E alcuni lo pensano ancora.

“Il virus mostra una sorprendente resistenza al calore e all’inattivazione con radiazioni e sostanze chimiche” scriveva 23 anni fa il patologo statunitense John Holland a proposito dei responsabili, ancora non identificati, di certe malattie del sistema nervoso. Alcune, come lo scrapie o l’encefalopatia trasmissibile del visone, mietevano vittime tra gli animali. Altre avevano per bersaglio il cervello umano. Era il caso del kuru e della malattia di Jakob-Creutzfeldt. Ma lo scienziato aggiungeva in una nota pubblicata su Scientific American: “a causa delle proprietà inusuali degli agenti che trasmettono queste malattie, molti studiosi ritengono che possa trattarsi non di virus, ma di qualche nuovo tipo di agente infettivo”. Si era a metà degli anni Settanta. Già si pensava dunque che oltre ai virus tradizionali ci fossero altre frontiere. Altre e diverse da quelle appena scoperte dei cosiddetti “virus” lenti, capaci di dare malattie a distanza di 10-20 anni, o dei viroidi, “virus” denudati pericolosi per certe piante, identificati nel 1962.

Eppure non si riusciva a immaginare niente di più elementare di un frammento scheletrico d’informazione genetica avvolto in un piccolo guscio proteico, un virus appunto. Difficile pensare a un nemico, per quanto elementare, senza informazione genetica, privo cioè delle istruzioni per fabbricare qualcosa di “velenoso” per le cellule che, iniziando come parassita, possa poi riprodursi.

E invece proprio di questo scrisse nel 1982 il quarantenne Stanley Prusiner sulle colonne di Science. Bisogna partire da due osservazioni elementari, sosteneva il virologo dell’università di Barkeley sempre riferendosi alle quattro malattie “orfane di virus”: il materiale infetto diventa innocuo se è trattato con sostanze che distruggono le proteine, mentre resta infettante se lo si mette a contatto con altre che distruggono il Dna o l’Rna, i portatori dell’informazione genetica. Che vuol dire? Che le malattie in questione sono dovute a particelle infettanti solo proteiche. Prusiner propose di chiamarle prioni. Sono loro il nuovo tipo di agente infettante ipotizzato 10 anni prima?

A qualcuno più che un’idea rivoluzionaria sembrava un’eresia. Non solo. Quando Prusiner riassunse le sue idee nel 1987 sulle colonne del New England Journal of Medicine, da Harvad arrivarono parole di prudenza se non addirittura di delegittimazione. “I prioni”, si chiedeva Bernard Fields nell’editoriale “Powerful prions”? della stessa rivista, “sono la causa dello scrapie o materiale prodotto nei tessuti per effetto della malattia”, dovuta invece a chissà cosa? Certo, aggiungeva, questi bastoncelli proteici sono utili per studiare malattie come quella di Jakob-Creutzfeldt o il kuru, ma – per favore – che abbiano a che fare con l’invecchiamento o la malattia di Alzheimer ”è qualcosa che appartiene in gran misura al regno della fantascienza”. In Italia pochi anni dopo ritornarono parole analoghe. “Ci sembra prematuro fantasticare eresie biologiche per spiegare le caratteristiche di questo agente infettante” scrivevano nel 1985 Maurizio Pocchiari e Carlo Masullo, virologi dell’Istituto Superiore di Sanità, su un quaderno de le Scienze, a commento di un articolo di Prusiner sui prioni. “Il termine prioni”, osservavano, chissà oggi con quanto rammarico, ”è a nostro avviso inesatto. E l’inesattezza ha creato tra quanti non seguono da vicino lo svolgersi delle ricerche l’idea non corretta che le malattie in questione siano dovute a un agente infettante proteico, privo di acidi nucleici”.

Negli anni Novanta, le fila dei convertiti all’idea dei prioni si sono allargate molto, ma con innumerevoli e significative assenze. Così mentre molte riviste corteggiavano Prisiner per avere qualche cartella su questa New Age virologica, irriducibili come il Nobel Carleton Gajdusek, noto per le sue ricerche sul kuru, si ostinavano a parlare di virus non convenzionali e a considerare quella di prioni un’ipotesi. Un’ipotesi tutta da verificare. Molti commenti sono stati sino a poco tempo fa del genere ”è un’ipotesi clamorosa. Così clamorosa che da qualche parte ci dev’essere un errore”. Non sappiamo se sia effettivamente così. Forse Prusiner apre la sequenza dei Nobel prematuri. Intanto le sue idee hanno convinto l’Accademie delle scienze di Stoccolma.

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