Quelle regole non scritte

C’è voluta una donna, Edith Cresson, come ministro della ricerca, perché la Commissione Europea si accorgesse che le donne nella scienza sono discriminate e aprisse un ufficio destinato a occuparsi del problema nell’ambito della Divisione della Ricerca Scientifica e Tecnologica. E così finalmente si è preso atto che tale discriminazione rappresenta una grave pecca in termini di democrazia, uno spreco di risorse per la società, una dispersione di talenti per la ricerca. Con una serie di convegni internazionali, svoltisi a Bruxelles tra il 1998 il 2000, la Commissione ha dato visibilità al problema delle donne nella scienza, promuovendo, in successione, un’analisi specifica della questione, l’incontro di reti di donne scienziate ed il confronto con il mondo politico. Ha inoltre costituito un gruppo di Helsinki, un comitato permanente di civil servant in rappresentanza dei vari paesi europei che si da appuntamento due volte all’anno nella capitale finlandese. Il gruppo, che si è riunito per la prima volta nel novembre del 1999, ha il mandato di sviluppare indicatori statistici sulle donne nella scienza e di monitorare le politiche implementate nei Paesi membri per promuovere la presenza femminile nel mondo della ricerca.

Nella comunicazione della Commissione Europea al Parlamento dell’Unione del 17 febbraio 1999 (1) si segnalava, a proposito dell’azione da intraprendere nel campo “donne e scienza”, la necessità di un approccio coerente nelle seguenti direzioni: la ricerca da parte delle donne; – la ricerca per le donne; – la ricerca sulle donne. Il primo punto riguarda i soggetti della scienza e fa riferimento alla necessità di promuovere la partecipazione delle donne alla elaborazione e gestione dei programmi di ricerca. E’ questo un problema di non poco conto, in quanto significa che dovranno esserci più donne a decidere quali ricerche sostenere, e anche a coordinare il lavoro di ricerca, con incarichi di responsabilità. Se e come questo influirà sulle direzioni della ricerca stessa, sull’organizzazione del lavoro, sulla struttura delle istituzioni, lo vedremo solo dopo che questo accesso sarà garantito. Qualcosa di diverso ci sarà senz’altro, per il semplice fatto che il mondo della ricerca avrà comunque dovuto modificare alcune delle sue regole non scritte. Si può immaginare poi che le donne, anche solo per l’esperienza storica di esclusione vissuta, promuoveranno una cultura della conoscenza, del lavoro e delle relazioni umane sostanzialmente diversa da quella dei loro colleghi maschi.

Il secondo punto riguarda l’oggetto della ricerca scientifica. Si deve tentare, tutte le volte che è possibile, di introdurre una dimensione di genere, nei progetti di ricerca. Di qualunque natura esse siano, si deve tenere conto che possono esserci delle differenze tra generi. E dunque queste devono essere esplorate. Non appaia, questa, una vecchia rivendicazione femminista, ma piuttosto la correzione di una grave manchevolezza teorica nella formulazione di progetti di ricerca. E’, per esempio, appena di una ventina di anni fa un’indagine epidemiologica sull’effetto dell’aspirina nelle malattie cardiovascolari, condotta negli Usa su 22.000 soggetti esclusivamente di sesso maschile (2). Il maschile, inteso come soggetto neutro universale, è dunque presente come riferimento, anche ai giorni nostri, in settori di studio che vanno dalla ricerca biomedica a quella socio-economica, passando per l’informatica e quant’altro. Questa fuorviante impostazione di fondo di molte ricerche va corretta, pena la qualità scientifica delle stesse.

Infine, il terzo punto fa riferimento alla ricerca sulle donne. Questo è problema diverso dal precedente. Si intende qui la necessità di rendere visibili le donne nella storia del mondo. Se è vero che poche di esse hanno avuto, per problemi di discriminazione sociale e culturale, accesso a posizioni rilevanti nella storia dell’umanità, è bene che proprio questo aspetto venga alla luce, come è bene che vengano messe a fuoco quelle figure che pure si sono distinte, ma che sono state sistematicamente ignorate nel racconto maschile del nostro passato, anche in tempi molto recente. E’ dell’ottobre 2000 una lettera alla rivista Nature che fa notare come, i necrologi (di solito dedicati a personalità eminenti della scienza) apparsi negli ultimi 40 sulla rivista scientifica inglese e sulla sua analoga americana Science in pochissimi casi riguardassero donne, cosa questa incomprensibile alla luce della consolidata presenza di donne qualificate, specialmente in alcune discipline. L’autore conclude spiritosamente, dunque, che le donne scienziate non muoiono, e che varrebbe la pena indagare i geni che le predispongono all’immortalità! (3)

Il compito di studi eminentemente storiografici e sociologici è proprio quello di strappare la cortina che nasconde le donne alla Storia, di rendere visibile una condizione di ineguaglianza (spesso ignorata dalle stesse donne), di restituire dignità e credito a figure di donne che si sono distinte per meriti particolari. In questo senso, il Consiglio dell’Unione ha raccolto l’appello della Commissione nel luglio del ‘99 (4), invitando i paesi membri a rendere disponibile tutta l’informazione necessaria a misurare la partecipazione delle donne nello sviluppo della scienza e della tecnologia in Europa, nonché i metodi e le procedure necessarie a questo scopo; a impegnarsi attivamente nel dialogo promosso dalla Commissione, in modo da valutare in maniera congiunta le politiche avviate a livello nazionale; a perseguire l’obiettivo della parità di genere nella scienza, con mezzi appropriati.Il 21 gennaio dello scorso anno, nella Comunicazione della Commissione intitolata “Towards a European research area”, e che imposta le linee della politica comunitaria in tema di ricerca per i prossimi anni, un punto specifico è dedicato alle donne di scienza: “Greater space and role for women in research”. In esso si conferma la volontà di perseguire l’elaborazione di un piano di azione, in accordo alla risoluzione del Consiglio. La Commissione ha anche prodotto, nel 2000, il rapporto Etan “Science policies in the European Union: promoting excellence through mainstreaming gender equality” (5). Il rapporto fornisce dati sulla situazione nei vari paesi europei, restituendo un quadro che non è certo brillante, anche se registra situazioni più favorevoli rispetto a quella in Italia. Le informazioni del rapporto sono un’utile base per programmare azioni positive efficaci, sia perché aiutano a individuare gli snodi critici, per alcuni dei quali emergono delle proposte di possibili soluzioni, già sperimentate in alcuni paesi, specie quelli nordici. La situazione europea non è molto diversa da quella americana, in cui però il problema della scarsa rappresentanza delle donne viene affrontato insieme a quello delle minoranze, e con approcci e strumenti, in parte, diversi dai nostri, se non altro per l’attenzione posta ai finanziamenti ed al peso delle figure politiche in gioco.

Nel luglio dello scorso anno negli Usa si è riunita la “Commission on the Advancement of Women and Minorities in Science, Engineering and Technology Development”. Questo comitato è stato fortemente voluto da una deputata del partito democratico ed è stato nominata dal Congresso, dalla Casa Bianca e dall’Associazione Nazionale dei Governatori. Il Cawmset ha fornito alcune raccomandazioni destinate a rimuovere ostacoli che sarebbero di tre tipi: culturali, formativi e lavorativi. Tra i primi si annoverano alcuni persistenti stereotipi del tipo “alle donne non interessa la carriera”, oppure ” le donne non sono portate alla matematica ed alle scienze esatte essendo più portate, per natura, alle professioni people-oriented”. Studi di sociologhe e psicologhe americane producono dati a sostegno di essi, facendo divampare di nuovo la discussione su “innatismo” o “storicismo” della diversità delle donne nella scienza (7). Questi stereotipi, secondo il Cawmset, vanno affrontati con studi correttamente impostati e mirati a individuarne le componenti reali. Per il superamento degli ostacoli di tipo formativo, vengono suggerite azioni destinate a promuovere la formazione qualificata, in particolare in alcuni settori, intendendo con questo sia l’attenzione alla qualità dell’insegnamento, sia l’uso di strumenti come borse di studio o altri sostegni per la formazione continua. Nei confronti del terzo tipo di ostacoli, viene indicata la necessità di chiamare i datori di lavoro, siano essi pubblici o privati a rendere conto delle carriere delle “cosiddette” minoranze.

Anche la National Science Foundation, rilancia programmi già avviati, con l’intento di trovare il modo giusto di aiutare le donne. Si tratta in questo caso di una revisione di precedenti iniziative che non hanno sortito l’effetto sperato. Dall’erogazione di finanziamenti individuali si pensa di passare a finanziamenti da assegnare a università, dipartimenti, istituzioni accademiche per sostenere progetti mirati a ridurre le discriminazioni di genere in ciascuna struttura. Nel contempo dai 12 milioni di dollari del vecchio programma (Powre) si passa ai 20 milioni del nuovo (Advance). Dunque: raccolta di dati, monitoraggio non solo di carriere, ma di spazi, finanziamenti, risorse. E ancora: formazione ed educazione nel campo della scienza, ricostruzione della storia delle donne, attenzione agli aspetti di genere presenti nelle varie discipline. E infine: investimento di fondi e professionalità in questi settori.

Le indicazioni dall’Europa e dall’America paiono coincidere anche per quello che riguarda il messaggio più rilevante, sottolineato da Teresa Rees, relatrice del rapporto Etan e sociologa: è l’organizzazione stessa della scienza che dà ai maschi un vantaggio ingiusto (8). La stessa considerazione ci viene proposta da Shirley M. Malcom, in un editoriale di Science: “E’ la struttura delle nostre istituzioni, agenzie, società, accademie e dipartimenti che deve cambiare” (9).Vale la pena di sottolineare che, pur coincidendo, le due affermazioni si basano su esperienze di tipo molto diverso, il che ne rafforza la sostanza. Infatti, nel primo caso, si è di fronte ad una analisi più o meno sistematica promossa a livelli istituzionali, mirata a mettere in luce la reale presenza delle donne nella ricerca scientifica ed a individuare interventi destinati a correggere le discriminazioni. Nel secondo caso, invece, si tratta pur sempre di azioni intraprese dalle istituzioni ma sollecitate da vere e proprie reazioni di indignazione da parte di donne coinvolte in clamorosi casi di discriminazione.

I casi emblematici, in un’epoca in cui l’informazione gioca un ruolo politico fondamentale, hanno fatto più “rumore”, e quindi attirato più attenzione che non leggi, comunicazioni, regolamenti e così via. Gli scandali più noti e recenti sono quelli messi in luce in un articolo apparso su Nature a firma di due ricercatrici svedesi escluse da un concorso: le studiose hanno dimostrato “scientificamente” che l’affiliazione accademica e il sesso sono fattori discriminanti nella valutazione e che le donne devono produrre 2,6 volte in più degli uomini per avere accesso allo stesso livello di carriera (10). L’altro caso è quello a cui fa riferimento l’articolo di Science ed è il rapporto steso dalle 15 “senior scientists” della facoltà di scienze del Mit a partire da un contenzioso su spazi e fondi riguardante una di loro. In questo caso, sono stati messi in luce meccanismi di discriminazione più subdoli, meno puntuali ed evidenti (1112). Le due storie hanno prodotto cambiamenti nelle istituzioni interessate, forse perché, appunto, gli interlocutori erano in rapporto diretto e l’oggetto del contendere era ben individuato. Il Medical Research Council svedese ha cambiato il board dei direttori, includendovi più donne, adottando linee guida diverse per la valutazione e aumentando la trasparenza dell’intera procedura. Al Mit, in 4 anni, il numero di donne membro della facoltà è aumentato di un quinto.

Concludere che per cambiare qualcosa in maniera sostanziale sia necessario creare dei “casi”, rischia però di coltivare nelle popolazioni di ricercatrici una vera e propria sindrome di persecuzione. Senza tenere conto che non tutte le “discriminate” potrebbero aver voglia di sostenere lunghe e sgradevoli battaglie in prima persona. Le stesse protagoniste dei casi succitati non mancano di segnalare quanto esse ritenessero ingiusto dover attendere mesi e anni per ottenere qualcosa che spettava loro di diritto. Anche perché dedicandosi a questa attività di documentazione della discriminazione, rischiano di vedersi ulteriormente penalizzate sul lavoro e sulla carriera (13). Tuttavia è evidente che la consapevolezza diretta da parte delle donne della propria posizione all’interno dell’istituzione scientifica, nella cultura che la ispira, nei suoi meccanismi di funzionamento è una tappa indispensabile per riuscire a produrre azioni incisive, siano esse nel proprio immediato ambiente di lavoro, siano esse a livello istituzionale e legislativo. Molte ricercatrici infatti credono, proprio perché vivono in un ambiente di livello culturale elevato e, in genere, liberale e multietnico, che problemi di discriminazione non si pongano. Questo è vero in particolare per le generazioni più giovani, convinte che le loro madri abbiano conquistato la parità, e che questa sia data una volta per tutte. La ben nota Barbara McClintock, premio Nobel per la Medicina nel 1983, mise in guardia una delle sue allieve allora agli inizi della carriera avvertendola che essere una donna scienziato è peggio che essere un negro in America. E insisteva anche anni dopo, all’epoca del femminismo, in una lettera indirizzata alla stessa persona: “competere con successo con gli uomini è fuori questione…… anche quando la donna è intellettualmente superiore”. La sua allieva, a quei tempi antifemminista convinta, è oggi una delle autrici del rapporto Mit, e protagonista del caso che ha portato alla sua stesura.

Che fare dunque? Londa Schiebinger, conclude il suo splendido libro sulla storia delle donne nella scienza moderna (14), affermando che “col seppellire il genere nella scienza, la cultura europea ha perso parte del suo passato. E’ tempo di portare alla luce questa storia; è tempo di trasformare sia scienza che società in modo che potere e privilegio non seguano mai più confini di genere”. In un libro successivo, dedicato al ruolo del femminismo nella scienza contemporanea (15), Schiebinger suggerisce anche la strada da seguire invitando a riconsiderare le definizioni della scienza, ad analizzare che cosa conta come scienza, con quali criteri e all’interno di quale contesto storico.

NOTE

1) ECC-COM 76 def. “Donne e scienza” Mobilitare le donne per arricchire le ricerca europea, Bruxelles, 17/02/99.

2) J. Palca (1990), “Women left out at NIH”, Science, 248, 1601-1602.

3) D. Falk (2000), “Careers in science offer women an unusual bonus: immortality”, Nature, 407, 833.

4) EU-Council Resolution on Women and Science, No. 8565/99 LIMITE RECH 71, adopted by the Research Council on 20 May, 1999.

5) EU Commission (2000), Science policies in the European Union: promoting excellence through maintreaming gender equality. A report from the Etan Expert Working Group on Women and Science, Office for Offical Publications of the European Communities, L-2985 Luxembourg.

6) J. Mervis (2000), “Diversity: easier said than done”, Science 289, 378-381.

7) C. Holden (2000), “Parity as a goal sparks bitter battle”, Science 289, 380.

8) N. Loder (1999), “Gender discrimination “undermines science””, Nature, 402, 337.

9) S. M. Malcom (1999), “Fault lines”, Science, 284, 1271.

10) C. Wenneras and A. Wold (1997), “Nepotism and sexism in peer review”, Nature, 347, 341-343.

11) S. Nadls (1999), “Women scientists unite to battle cowboy culture”, Nature, 398, 361.

12) A. Lawler (1999), “Tenured women battle to make it less lonely at the top”, Science, 286, 1272-1278.

13) N. Loder (2000), “US science shocked by revelations of sexual discrimination”, Nature, 405, 713-714.

14) L. Schiebinger (1989), The mind has no sex? The women in the origin of modern science, Harvard University Press, Cambridge, Massachussets.

15) L. Schiebinger (1999), Has feminism changed science?, Harvard University Press, Cambridge, Massachussets.

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